giovedì 5 settembre 2013

La cammella e il cammellino




Un pomeriggio d'estate mi sono finalmente guardata "La storia del cammello che piange". Finalmente perchè erano anni che rimandavo.
E' un documentario girato all'interno di una minuscola comunità di pastori accampata nel deserto della Mongolia, composta da donne, uomini, bambine, bambini, capre e cammelli. Una trentina di anime in tutto.

Alcune cammelle sono incinte e prossime al parto. E' un argomento di cui si parla e ci si alza la notte per vedere che tutto vada bene.
Una delle cammelle ha però un parto lungo e doloroso, ha gli occhi pieni di paura e si lamenta giorno e notte. E' molto sofferente e i pastori l'aiutano con fatica  a far nascere il camellino. 
Sembra che tutto sia finito bene, ma la cammella rifiuta il piccolo, lo caccia quando lui cerca di succhiare il latte e ha sempre quello sguardo pieno di paura che aveva durante il doloroso travaglio, come se fosse rimasta incagliata in quel tempo.
I pastori cercano di convincerla, avvicinando il cammellino alla sua faccia perchè lei possa annusarlo, ma non serve a niente. Si allontana dalle tende e invano il povero cammellino la rincorre. 
La vecchia di casa la sa lunga: "Ha avuto un parto difficile ed è il suo primo figlio. Può succedere". 
La famiglia decide infine di andare a chiamare un musicista che abita a qualche ora di cammellata nel deserto, e sono due bambini ad andare.
Il musicista arriva in groppa a un motorino scassato, imbracciando uno strumento a corde simile a un violino. Dopo il tè di benvenuto dentro alla tenda, tutta la comunità si siede intorno alla cammella e al musicista. Per prima cosa lui appoggia lo strumento al corpo di lei, e lascia che il vento, passando tra le corde, produca delle vibrazioni e dei deboli suoni. Poi inizia a suonare, mentre una donna della famiglia accarezza amorevolmente il collo della cammella, senza fermarsi mai.
All'inizio la cammella ha il solito sguardo spaventato, ma al tempo stesso è come se qualcosa riuscisse ad attirare la sua attenzione, infiltrandosi in quel tempo in cui pare essere rimasta incagliata. 
Il violinista suona e la donna che l'accarezza inizia a cantare.
Ora la cammella ascolta la musica.
Il violinista suona e la donna l'accarezza e canta.
Il cammellino geme, tenta disperatamente di avvicinarsi alla madre, ma un pastore lo trattiene, ha paura che sia troppo presto. Poi lo lascia andare e la cammella per la prima volta non lo caccia. Il piccolo annaspa sotto il ventre della madre alla ricerca del capezzolo e inizia a succhiare.
La cammella ha lo sguardo attento e ad un certo punto dai suoi occhi sgorgano copiose lacrime. Ora il suo sguardo non è più pieno di paura, sembra invece essere tornata da lontano, da un posto che faceva paura. Annusa il piccolo e strofina il muso tra i suoi peli, mentre il musicista continua a suonare.
E' un bellissimo film. Un racconto semplice, pieno di poesia e che ci riguarda, perchè le donne non sono tanto diverse dalle cammelle.

Ma perchè perchè perchè il titolo è "Storia del cammello che piange" e non "Storia della cammella che piange"....????? Perchè?






mercoledì 4 settembre 2013

Dice Mariangela....

foto di Neil Palmer

Sermone ai cuccioli della mia specie


Cari cuccioli,
vi ho guardato a lungo.
Ero lì nascosta nel buio
e vi guardavo giocare,

nascosta nel buio come una carogna,
come una spia che studia
il nemico, come un ladro che aspetta
il momento buono,
come un terrorista
che guarda a distanza
e fa i suoi piani d’innesco.
Io vi guardavo ammutolita,
intenerita da voi,
cari cuccioli della mia specie,
e poi anche disgustata da voi
che eravate lì inermi a un palmo dal
mio naso.

Siete indeboliti cuccioli. Siete
Spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati.
Sfiniti siete. Siete vinti.

Io vi guardavo da una quasi nausea,
da tutto quel buio: ricordavo
un’antica infelicità d’infanzia, un’antica
paura.
Ricordavo bene quell’essere fra gli
Altri, spersa, sola.
La mia paura me la ricordavo,
guardando la vostra. Ricordavo bene
il mio sguardo, come se lo avessi
sempre visto da fuori:
sbigottito, quasi non ci credevo
d’essere in questo mondo,
non me lo spiegavo, il mondo,
non mi raccapezzavo.
Come precipitata ero,
dalle altezze caduta molto giù,
molto di lato, nel mondo degli uomini
e delle donne. Nel mondo
delle case di mattoni.
Nel mondo dove si lavora e
Si mangia e si dorme e
Si fa la cacca ogni giorno
E ogni giorno si fa la pipì
Tante di quelle volte e si mangia e
Si dorme e ci si lava la faccia.

Da dentro quello sguardo,
chiusa lì dentro
nella mia fortezza
io guardavo il mondo dei grandi e
provavo una grande pietà.
Io li sentivo che piangevano dentro.
Sentivo che non ce la facevano.
Li sentivo gridare dentro. Con muri
dentro, con scarafaggi e muffe,
dentro.
E un giorno,
quando ero molto piccola,
ho fatto giuramento,
un giuramento infante,
senza le parole, ma chiarissimo
e sonante:
io me li prendo tutti nel petto
e li scampo
li porto in salvo.

Ho giurato così,
senza dire neanche una
di queste parole,
ma con tutte queste parole più forti cento volte.
Nel mio letto, vicino al grande
armadio con lo specchio,
fra le sponde alte di legno,
con la sorella vicina che tossiva,
giuravo forse ogni notte, per quella
tosse, per la faccia stanca
del mio babbo, e per tutte le facce
dei grandi,
coi loro segni come di grande pena.
Una bambina nel suo letto
ha fatto il giuramento,
recitato la formula che salva,
forse ha vinto sulla morte
e sul mondo.

Aspettavo il giorno in cui mi
avrebbero detto il grande segreto.
Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro
non dire niente
si nascondeva la grande verità.
Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano
tutto quello che io non sapevo.
Sentivo che un giorno me lo
avrebbero detto
e io avrei capito il mondo
e non avrei sofferto come loro,
perché loro stavano già soffrendo
anche per me. Sentivo e aspettavo.

Poi molto piano, molto in ritardo,
molto piano, millimetro dopo
millimetro,
in un lavoro di tic tac e minuti molto
piccoli, piano piano,
sono passata di là,
sono caduta del tutto nel mondo,
appiattita, schiacciata al suolo
in un lento atterraggio.

Adesso, cari cuccioli, io sono grande.
Sono molto grande.
Sono quello che mai e poi mai
avrei voluto essere:
una persona grande.
Adesso io sono dei loro.
Adesso lontanissima sono
dai miei favolosi sette anni,
quando ero un genio buono,
uscito da poco dalla lampada,
e un filosofo ero, ma senza
le parole, un grandioso poeta
analfabeta, un artista senz’arte.

Adesso da qui, da questo esilio duro,
da questo corpo con peso, da questa
mente complicata,
da questa mente ingombrante,
da qui,
da questo buio che è tutto il mio,
da qui vi guardo, adorandovi.
Vi chiedo aiuto.
Una parte di me vi supplica,
vi implora, vi chiede aiuto e aiuto.
Adesso tocca a voi salvarmi, fare
Il giuramento.
Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite?
Sentite?

Dicono che siete rotti.
Siete sazi, dicono. Corrotti.
Rovinati siete, come tutto il resto.
Anche voi nella lista lunga delle
Perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio,
il pudore… Anche voi.
Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e
Troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi.
Vuoti.

Allora adesso imparate.
Imparate l’odore dei nemici potenti.
Sbranate, cuccioli, le loro mani piene.
Scassate le loro tane come galere.
Sputate sui loro piatti, incendiate le
Stanze gonfie di giocattoli,
scappate, morsicate, tirate pietre sui
televisori, scalciate, spaccate questo
micidiale nostro sogno, l’inesauribile
bisogno di confort,
fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci
per avere fatto di voi
le nostre miniature
per avervi disinnescati, resi innocui,
per non avervi ascoltati, nel vostro
sommo sapere.

Voi che eravate le porte
del regno dei cieli
e chi non passava da voi non passava
voi che eravate purissima gioia
voi che eravate noi bloccati nella
più grande bellezza
voi che somigliavate ai cuccioli
degli altri animali
voi che capivate lo splendore
misterioso degli animali
voi che dormivate un sonno perfetto
e benedetto
voi che vi svegliavate ridendo
voi che facevate balletti strepitosi.
Voi, nostre divinità domestiche.

Nascete ancora, cuccioli. Restate.
Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate.
Siate.

Mariangela Gualtieri