Danae, di Auguste Rodin
(articolo pubblicato sul numero Benvenuto tra noi, rivista Gli Asini, n. 12-13 ottobre 2012 gennaio 2013)
di Marzia Bisognin
Ho letto alcuni giorni fa su Facebook il post di una giovane donna che più o meno diceva così: le madri scelgono sempre la qualità, è la loro natura, e il femminismo anni Settanta ha perso.
Ho vissuto quella memorabile
stagione, pur se come una sorellina minore che si è trovata il solco già aperto
davanti. Ricordo con tenerezza quando passavamo i pomeriggi, armate di
speculum, pila e specchio, a scoprire l'aspetto dei nostri genitali e come
eravamo fatte dentro
Ricordo bene il tentativo di
rintracciare e incarnare in noi stesse
quel noi e il nostro corpo che era il titolo del famoso libro
scritto da un collettivo femminista di Boston, pubblicato in Italia nel 1974.
Imparammo ad ascoltarci, a sentire il corpo dall’interno, dopo averlo studiato
nei primi manuali di educazione sessuale.
Spaccammo il capello in
quattro nei collettivi di autocoscienza, e come bulldozer emozionali mettemmo a
soqquadro tutto quello che la società, o semplicemente le nostre mamme, si
aspettavano da noi. Coltivammo con passione le relazioni tra donne.
Ancora in quegli anni,
gli abiti premaman erano pensati per mascherare l’indecorosa pancia, la parola
“parto” era considerata sconcia, a “incinta” si preferiva “stato
interessante”. Non c'erano molti modi
per affrontare gravidanza, parto e allattamento. Gli esseri umani crescevano
nel mistero del ventre materno in seguito a un rapporto sessuale, dirompevano
nel mondo facendosi strada nella carne dolorante, tra umori corporali che si
preferiva non nominare. Punto.
Se eri incinta ti sposavi, salvo poche eccezioni, il sistema patriarcale e
sessista era forte e robusto.
Il movimento delle donne
degli anni Settanta disertò dalla maternità. Se ne possono capire molto bene le
ragioni, il dominio sul corpo femminile era potente, e il fascismo non era poi
così lontano dalla memoria, con il suo culto della madre rurale, prolifica e
sacrificale. Scendere in battaglia per liberarsi di quel modello richiedeva
armi efficaci, mica belle parole. Occorreva che la battaglia entrasse nella
vita quotidiana, dentro alle case, dentro alle relazioni familiari e a quelle
sentimentali, fin dentro il proprio corpo.
Cosa poteva essere più sovversivo che rifiutare la maternità? Se la
natura ci aveva reso schiave, la cultura ci avrebbe reso libere.
Non che fosse la prima volta che le donne irrompevano sulla scena pubblica, la
parola “femminismo” aveva anzi quasi un secolo di vita, ma le battaglie erano
state quelle del diritto al voto, dell’accesso all’educazione superiore e alle
libere professioni, della gestione di eredità e
proprietà. Il movimento
femminista degli anni Settanta ha prodotto invece una narrazione degli aspetti
più privati dell’universo femminile, ha dato dignità a temi scabrosi come
mestruazioni, masturbazione, orgasmo. Ha dato centralità politica
all'esperienza personale, ha introdotto nuove parole, che fecero virare il
linguaggio politico verso quel il privato è politico che diventò il
simbolo di un'epoca.
Fu solo per ragioni
strategiche che la maternità restò sostanzialmente esclusa dal discorso
femminista? Perché non riuscì a trovare parole e prospettive nuove? Forse
quella cultura che si traduceva in un
continuo interrogarsi, nell'andare a scavare dentro di sé fin dentro le più
oscure radici, quell'abbattere ogni consuetudine bruciandosi tutto alle spalle,
era un patrimonio troppo fragile da gestire?
La maternità è densa di
contraddizioni intrinseche. L'atavica paura del bambino mostro, la paura di
covare colui che ti sarà nemico, o colui che non sarai capace di accogliere,
sono paure che fanno parte del gioco. Forse affrontare queste ambivalenze
avrebbe indebolito la lotta?
Non lo so, quello che so è
che la maternità restò una patata bollente. Rimase esclusa come fosse una
scelta involuta e regressiva, di cui valeva la pena occuparsi solo per
liberarsene o per trovare formule di conciliazione con il resto della vita:
asili Nido per per avere accesso al mondo del lavoro, anticoncezionali e
diritto all'aborto per una libera autodeterminazione, biberon per non essere
relegate nel privato e nel ruolo di addetta all'accudimento. Il movimento
femminista non rivendicò e non riconobbe la gravidanza e il parto come
esperienze formative, di crescita personale, di scoperta di sé. Di
quel sé di cui invece si faceva un gran
discutere. Il pensiero critico, se così vogliamo chiamarlo, si arenò davanti a
questa soglia. Le poche che si occuparono di maternità analizzarono
principalmente la relazione con la propria madre, come fossimo
destinate a restare sempre e solo figlie.
Così, abbandonata a sé
stessa, la maternità rimase sguarnita di pensieri, idee, discussioni, quasi che
abitasse una dimensione parallela. Quasi che, nel momento dell’inizio della
gravidanza, si salisse su un altro treno. Fin dal momento così denso di
sentimenti ambivalenti in cui una donna si rende conto di essere incinta.
Ci furono sparuti
gruppi di donne che, spesso per ragioni biografiche, fecero di gravidanza e
parto il cuore del loro attivismo. Fu un piccolo movimento di nicchia per l'autogestione della salute, della gravidanza e del
parto. Ne sono stata testimone e protagonista. Scoprimmo anche la figura
dell’ostetrica, e che la nascita di un bambino è un evento nel quale due donne
agiscono insieme. Scoprimmo l’importanza della relazione empatica e direi quasi
affettiva fra le due.
Tra i pochi libri militanti
che si occupavano di nascita, uno su tutti: Riprendiamoci
il parto, pubblicato in Italia nel 1977 da Savelli. Raccontava l’esperienza
di un gruppo di femministe americane agli inizi degli anni Settanta,
arrestate in massa dalla polizia californiana per pratica medica
illegale. Un libro fatto di testimonianze dirette, illustrato da tante foto,
che mostrava per la prima volta donne che partorivano al di fuori dell'ambiente
ospedaliero, su un materasso steso a terra nella propria casa, circondate da
amiche, compagno, bambini, con il neonato in braccio appena uscito, ancora
umidiccio.
Per molte di noi, quel libro
fu un inizio.
Il femminismo mise alla
berlina la famiglia tradizionale, la coppia come migliore cornice del viver
felice. Oggi invece, nonostante le statistiche ci parlino di una società sempre
più eterogenea, la famiglia sembra essere tornata in auge come unica, adeguata cornice in cui far nascere un
bambino. Per rendersene conto basta
leggere un manuale per futuri genitori, la home page di un sito che proponga corsi pre-parto, qualsiasi
dépliant che parli di maternità e di nascita. Sembra che l'unico modo legittimo
per fare un figlio sia programmarlo facendo un buon uso degli anticoncezionali,
farlo nascere all'interno di una coppia pronta a saltare a piè pari dall'essere
una coppia erotica al diventare famiglia, seguire uno stile di vita sano per
nove mesi, attendere il lieto evento serene e rilassate, e infine accogliere il
bambino con gioia. Tutto è al plurale, come se la specificità femminile nel
percorso fosse sempre più sbiadita, indistinguibile da quella maschile. I corsi
pre-parto sono rivolti alle coppie, e il massimo della mistificazione l'ho
trovato in una testimonianza che si concludeva con “alla fine abbiamo deciso
di abortire”. Quello che accade nel corpo della donna è diventato
patrimonio della coppia. Era naturalmente auspicabile che gli uomini si
sentissero coinvolti in prima persona, dal concepimento fino a trovare un nuovo
modo di essere padri, e il fatto che sia successo è una gran bella conquista
per tutti. Però è un'evidente manipolazione della realtà che il corpo della
donna non sia più solo il suo, bensì sia
patrimonio della coppia, oggetto di pianificazione familiare. Certo ne è
passata di acqua sotto i ponti, dal il corpo è mio e lo gestisco io del
femminismo anni Settanta.
La società in cui viviamo è
più complessa di come ce la raccontano i manuali, i bambini nascono in tanti
contesti diversi e soprattutto potere scegliere di essere madre non garantisce,
come si era creduto all'inizio, una maternità migliore. Non solo perché la
libertà di scelta è forse un'illusione, ma perché appesantisce il peso delle
responsabilità: più si è libere di scegliere, più si hanno responsabilità e
doveri. Niente può fare presagire cosa sarà quel tempo speciale che è l'attesa
di un figlio. Si diventa qualcosa che prima non si conosceva, ed è
un'esperienza potente, che può essere esaltante ma anche destabilizzante e
angosciosa. Alla buona madre contemporanea non è concessa l'ignoranza, la
distrazione, l'ambivalenza e tanto meno l'infelicità.
“Quando i figli non sono
pensati, la donna non riesce a vivere la cosiddetta gestazione psichica
necessaria come quella biologica per prepararsi alla nascita”, questa la
lapidaria sentenza di un'esperta a proposito dei cosiddetti figli dell’errore,
ovvero quelli che nascono non programmati.
Oggi gravidanza,
parto e puerperio sono abitate da due principali scuole di pensiero, che si
fronteggiano e si spingono fin nel territorio dei primi passi dell'infante.
C'è il naturismo
estremo, che rivaluta l'istinto materno e la dedizione totale al figlio. Per
realizzare la sua autentica natura, la donna non ha che da diventare madre. Nel
bel tempo che fu, le partorienti erano libere dagli artigli dei medici e,
circondate dall'amore femminile delle comari, davano alla luce neonati rosei e
sani, senza lamenti. Si arriva fino alla declinazione contemporanea del tremate
tremate le streghe son tornate di antica memoria: i cerchi di donne
che, ebbre di luce lunare, invocano la
Dea Madre. Si rivalutano i pannolini lavabili, indispensabili per salvare il
pianeta, e si auspica un allattamento prolungato, fino alle soglie delle
elementari. Come se tutto ciò che era, fosse migliore di ciò che è.
Numi tutelari di
questa visione, vengono elette le donne che appartengono a culture
tradizionali, agricole, basate su economie di sussistenza: eritree, indiane,
indonesiane, pakistane. Ovvero le stesse donne che incontriamo ogni giorno
nelle strade delle nostre città e con cui condividiamo i reparti maternità
degli ospedali. Solo che loro si stanno
emancipando dall'agricoltura di sussistenza e spesso aborrono allattamento al seno e parto a
domicilio, in quanto simboli di miseria e arretratezza. Per una ragazza che viene
da un paese avanzato come l'Olanda, al
contrario, sono pratiche consuete e auspicabili, simboli di una società del
benessere.
Sul fronte opposto del
naturismo, l'emancipazione e la
modernità coincidono con l'affrancamento dalla schiavitù del corpo che ci
offre la scienza medica. Il parto
fisiologico e l'allattamento al seno sono pratiche arcaiche e quanto più sapremo sfruttare le nuove
tecnologie, tanto più saremo protette dai rischi e libere. Come se tutto ciò
che è, fosse migliore di ciò che era.
L’utero
artificiale attualmente può sembrare fantascienza, ma certamente è solo un
problema di tempi tecnici, poiché l'utilizzo della surrogacy ha già
rotto l'indissolubilità del corpo materno con il figlio. Oggi è possibile
cercare su internet un'agenzia di maternità surrogata, acquistare un ovulo da
una donatrice, il quale verrà fecondato in vitro e infine impiantato nell'utero
di un'altra donna. Quest'ultima quindi è solo l'incubatore di un essere con cui
non condivide neppure una minuscola elichetta del suo DNA. Arrivare all'utero artificiale, come quello
di Matrix, è dunque solo questione di tempo. Potrebbe inorridirci l'idea,
eppure non ci inorridiscono gli articoli sui giornali che quasi ogni giorno ci
dicono che tutto penetra la placenta e danneggia il nascituro. Lo stress
materno, un drink per aperitivo o uno qualunque di quegli incidenti di cui la
vita è costellata: se il compito della gestante è creare un ambiente perfetto
come un laboratorio, se la vita stessa sembra poterlo contaminare, un utero
artificiale non sarà che la logica conseguenza.
Non penso che la
radicalizzazione ideologica sia causata dalla mancata presenza del pensiero
femminista sulla scena della maternità, almeno non principalmente. Penso
piuttosto che i cambiamenti degli ultimi cinquant'anni anni non siano ancora
stati metabolizzati. La possibilità di pianificare la gravidanza con l'uso
della pillola, di seguire gli sviluppi del feto durante la gestazione con
l'ecografia, di concepire con la fecondazione in vitro, di far crescere un
figlio nella pancia di un'altra, hanno prodotto profonde trasformazioni ancora
in fase digestiva.
La percezione
stessa del corpo oggi nemmeno assomiglia a quella delle nostre progenitrici. Un
tempo non lontano era una faccenda di sensazioni, di flusso sanguigno, di
ristagno di liquidi, e questa percezione informava tutto l’immaginario. Oggi è
diventata una faccenda di analisi, di ovociti, di morfologia degli organi, di
patrimonio genetico. Un tempo non lontano quello che accadeva nel ventre materno
era un mistero che si svelava solo nel momento della nascita. Oggi il feto è
una realtà sociale fin dai primi mesi di gestazione, e si mettono sui social
network le immagini ecografiche che lo immortalano mentre si ciuccia il dito.
La gravidanza è una
condizione esistenziale della donna, la quale non è più quella di prima e non è
ancora quella che sarà dopo, sono mesi di formazione interiore. Oggi però la
donna incinta è sempre più indotta a percepirsi come l’ambiente in cui cresce
il suo bambino, ben distinta da lui, e i suoi doveri primari sono quelli di
preservare l'illibata purezza di questo ambiente con una vita sana e fare
continue indagini cliniche per scongiurare ogni rischio.
Ma la nostra
psiche e il nostro immaginario hanno assorbito, metabolizzato, questi
mutamenti? Siamo davvero riuscite a tenere il passo con i tempi? Oppure il
disagio e lo smarrimento delle madri del giorno d’oggi ha a che fare con tutto
questo?
Nel mondo in cui
viviamo, occorre ridefinire che cosa è la natura, che cosa è la cultura, che
cosa è la tecnica. Senza arroccarsi su concetti
prêt-à-porter. Si può diventare madri, oggi più di ieri, in tanti modi
diversi. Ci sono maggiori opportunità, maggiore conoscenza, maggiore benessere,
maggiore libertà. Allo stesso tempo ci sono competenze che si perdono, problemi etici che si pongono alla nostra
coscienza, smarrimenti sconosciuti, profonde solitudini.
Quello di cui si
sente la mancanza è un pensiero critico, spregiudicato, che vada oltre l'estremismo ideologico che si è sviluppato
sulla maternità, che affronti i vagabondaggi interiori delle madri, i temi
della libertà di scelta e delle nuove tecnologie. Un pensiero che sappia
articolare la complessità contemporanea. Che cosa significa, nel panorama
attuale, essere libere di scegliere? E che cosa significa, in senso più ampio,
essere madri consapevoli e donne libere?
Un punto di vista
femminista? Forse lo si può chiamare così, se con questa parola definiamo quel
pensiero che si interroga sulla dignità e la libertà delle donne.
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