domenica 2 febbraio 2014

Femmine un giorno e poi madri per sempre.

Raichu, evoluzione di Pikachu

Quando ero ancora nell’età in cui potevo generare figli dalla mia carne, pensavo che l’unica cosa certa è che si nasce e si resta figlie, e che invece si diventa madri ogni giorno, che non è sufficiente aver messo al mondo un bambino, che non è una cosa  imparata una volta per tutte come l’andare in bicicletta. Che la maternità va scoperta, inventata, riaggiustata, combattuta, accettata, masticata e digerita, giorno dopo giorno.
Ricordo di avere trascorso tanto tempo stupefatta che quella cosa, essere diventata madre, fosse capitata proprio a me. Le prime settimane dopo il primo parto, quando mi svegliavo alla mattina ero quasi sbalordita che quella neonata fosse ancora lì, non potevo distrarmi o metterla tra parentesi, lei era sempre lì. Tutto era diventato laborioso e complicato, anche il minimo garantito per la mia sopravvivenza come mangiare, dormire, andare in bagno, vestirmi. Le sue esigenze imperavano, debordavano, sommergevano tutto. Aveva fame, piangeva, la allattavo, si addormentava, si svegliava, piangeva, aveva fame, la allattavo. Saranno stati anche i fumi della prolattina e della mancanza di sonno a farmi galleggiare come in un sogno, ma mi stupivo dell’enormità di quello che era successo, mi batteva il cuore accorgendomi di quell’ineluttabilità.
Era esaltante l’irruzione di quella vita.
Era emozionante.
Era paurosa.
Giorno dopo giorno venivo traghettata, con tutte le mie cose, verso qualcosa che mi appariva favoloso e carico di doni. Prendermi cura di quel cucciolo era la cosa più bella che mi fosse mai capitata, ne ero perdutamente innamorata, ma piangevo per un nonnulla e intravedevo fin da subito che tante insidie stavano lì acquattate, pronte a saltarmi addosso. Qualcosa di me si era aperto, come il mio corpo si era aperto nel dare alla luce la creatura che per lunghi mesi era stata rannicchiata nella mia pancia. Mi ero aperta, non potevo più richiudermi e conoscevo una nuova vulnerabilità. Che cosa mi avrebbe portato quell’esserino? Quanta genuina felicità? Quanta speranza? Quanta paura? Quanto lacerante dolore? Potevo ancora essere integra, lucida e intatta come una palla da biliardo che rotola sbruffonamente nella vita?
Nelle nascite successive non avrebbe dovuto esserci questo stupore, in fondo lo sapevo già. Invece c’era, altrettanto forte. Niente sarebbe stato più come prima, non sarei stata nemmeno più la stessa madre che ero stata fino a quel momento.
Tra la donna che diventa madre e il figlio è un continuo processo di patteggiamento, di adattamento reciproco, fin dal momento in cui l’ovulo fecondato scende dalle tube e la nuova vita si insedia nella parete uterina, e può avere un andamento armonioso oppure litigioso. Il corpo si predispone all’attesa, si è una e allo stesso tempo si è due. Ricordo le mie gravidanze come stati di grazia in cui godevo di un intenso rapporto con me stessa, lunghi pomeriggi trascorsi nel letto ad ascoltare i movimenti nella mia pancia, ore passate a scrivere su un quaderno i sogni della notte e i ricordi d’infanzia. Anche quando il mondo che mi circondava non mi concedeva quei privilegi che ritenevo mi fossero dovuti, me li prendevo a morsi con una determinazione che non sapevo di avere.
Poi arriva il giorno in cui ci si separa, si diventa davvero due e mica è facile.
Occorre imparare l’arte di far convivere tante parti di sé, senza che una parte uccida l’altra o la faccia crescere esangue come una pianta vissuta nell’ombra o, peggio ancora, germogliata sotto un sasso. 
Imparare l’arte di amare che, come il respiro, è un dare e un prendere.

Proteggere, prendersi cura, ma rispettare l’alterità del figlio.
Apprendere la propria fallibilità. Sapere portare dignitosamente il peso delle colpe che inevitabilmente si accumulano.
Sapere andare avanti, anche quando si vacilla.
Per quella che è la mia storia, il tempo in cui stavo diventando quella che sono diventata è stato un tempo tumultuoso, in cui la mia crescita si è intrecciata con la crescita dei miei figli, un processo di maturazione magmatico, simile alla trasformazione del compost organico. Sono diventata madre molto giovane, è giusto? E’ sbagliato? I figli bisognerebbe forse averli quando il tempo della propria formazione si è compiuto? E se anche un tale tempo esiste, non si avrebbe un’età ormai più adatta a fare la nonna piuttosto che la mamma? E il diventar madre non sconvolgerebbe forse anche l’assetto più equilibrato e consolidato?
Comunque sia, per tanto tempo ho pensato che l’unica cosa certa è che si rimane sempre figlie, mentre l’essere madre è da imparare ogni giorno. Ho capito invece che le età della vita spostano le prospettive, i punti di vista. Sto scoprendo insomma, mano a mano che avanzo recalcitrante verso quel tempo che sarà l’ultimo, che anche l’essere figlia non è dato per sempre, se non come nocciolo interiore. E che l’essere madre, così come l’ho vissuto nella baldanza generativa, è destinato a diventare un fatto acquisito e a sfociare in qualcosa di molto diverso.
Un tempo, tanto per dire, mi identificavo nei protagonisti delle storie di cui venivo a conoscenza. Oggi mi succede sempre più spesso, specie se è una storia dolorosa, di identificarmi con la madre del protagonista, solitamente assente dalle scene. La minorenne finita nella tratta della prostituzione, il ragazzo depresso e abulico, la ragazza suicida, l’adolescente immigrato e incarcerato. E che dire di Kurt Cobain, ce l’avrà avuta anche lui una madre. Mi viene da pensare alla madre di Luigi Tenco, alla madre di Amy Winhouse, e persino alla madre di un mio mito di gioventù, Janis Joplin. Chi ci aveva mai pensato prima, a tutte queste madri?
Ho dovuto però vedere i miei figli prendere la loro strada di adulti, per ribaltare il punto di vista, e identificarmi con la mamma di Amy Winehouse. Essere madri di adulti è molto diverso che essere madri di bambini, eppure non si è certo meno madri. “Femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che stagioni non sente” (1).
Sono abbastanza evoluta da sapere che è giusto che i figli vivano la loro vita, che passino i loro dolori, che imbocchino i loro sentieri irti di spine, che la libertà è un bene supremo. Ma come posso impedirmi di desiderare che questi figli siano sempre felici, che non conoscano la sofferenza, che non vivano l’oltraggio della malattia, né la minaccia della morte?
Come sarebbe, voglio forse che i miei figli non vivano? Che siano dei citrulli imbalsamati nella formalina? Certo che no, che pensiero blasfemo.
E però.
Però.
A volere dire la verità fino in fondo, questo desiderio che i figli siano in salute e felici non è dettato solo da un amore assoluto, incomparabile ad ogni altro amore sperimentato, ma anche da un prepotente istinto di autoconservazione. Il tanto decantato diritto a non farmi divorare dall’essere madre continuando a coltivare la mia vita di donna, è direttamente proporzionale al benessere dei miei figli. Di fronte alla loro sofferenza perdo quegli appigli con la terra che mi fanno stare in equilibrio, quasi tutto mi appare improvvisamente superfluo e vano. Se una minaccia incombe su di loro, desidero solo connettermi con quella che Etty Hillesum chiamava la profonda sorgente, spesso coperta da pietre e sabbia, per trovare la forza necessaria (2). Resto nella normale quotidianità come fossi l’ologramma di me stessa, pura apparenza, cerco di nutrire l’invisibile per non sentire i morsi al cuore e avere quella che un tempo si chiamava forza d’animo.
Se si può decidere se e quando diventare madre, non si può decidere se e quando diventare nonna, ti capita e basta. La prima volta che è successo ho fatto sogni incredibili, che svelavano una trasformazione in atto di cui da sveglia non mi rendevo altrettanto conto.
Avevo sempre  avuto un sogno ricorrente. Entravo in una casa abbandonata, ma ancora piena dei suoi mobili, le sue carte, i suoi oggetti.  Le pareti erano ingiallite dal tempo, le stanze di aprivano una dopo l’altra, quasi si fosse trattato di un lungo corridoio, separate tra loro da una porta. Io le attraversavo piena di emozione, commozione direi, perché sentivo tutti i misteri che quella casa antica e piena di polvere celava, ma mi restavano tutti nascosti. Io sapevo che in fondo, nell’ultima stanza, qualcuno si era ricoverato lì abusivamente, ma non sapevo chi era, né l’ho mai incontrato.
Ebbene, nei mesi che mi separavano dalla nascita del mio primo nipote, una notte ho sognato che entravo nella casa. La prima stanza era stata tutta tinteggiata di nuovo, anche i mobili erano stati rinnovati e non c’erano più tutti quegli oggetti sparpagliati che c’erano sempre stati. La porta che si affacciava sulla seconda stanza era chiusa, allora abbassavo la maniglia ma scoprivo che era stata chiusa a chiave. Chiusa per sempre, perché non ho mai più sognato quella casa.
Sto scoprendo che è possibile, e anzi necessario, diventare madre persino della mia stessa madre, che devo proteggerla, consolarla e stimolarla con attività didattiche affinchè possa continuare ad aggrapparsi a pezzi di memoria. Con lei mi capita di attivare la fantasia per inventare piccole strategie risolutive, proprio come si fa con i bambini. Come quella volta che mio nipote, all’età di tre anni, buttò il suo Trigro di peluche nel camino, senza rendersi conto che il fuoco brucia e divora. Lo tirammo prontamente via con le pinze, ma il peluche era irrimediabilmente strinato, in alcuni punti si era rotto e usciva l’imbottitura. Lui piangeva inconsolabile. Allora improvvisai un Pronto Soccorso. Ricoverai Trigro, lo disinfettai con acqua ossigenata, gli misi la pomata, gli feci un’iniezione, chiusi le ferite con cerotti e garza e raccomandai a mio nipote di prendersi cura di lui.
Il peluche continuò a fare il suo dovere di peluche ancora per anni, così medicato.
Sto scoprendo anche che la maternità appartiene a tutte le donne, pure a quelle che di figli non ne hanno generati mai. Anche loro si confrontano con la maternità, semplicemente perché sono donne. Sia che la temano, che la cerchino invano, che ne patiscano la mancanza, che si interroghino o che se ne sottraggano bellamente e godano di questo privilegio. E poi siamo tutte figlie di donne che ci sono state madri, e non abbiamo mai potuto fare a meno di pensarci “come se”. Tentando di non assomigliarle mai, o tentando di ricalcarne perfettamente la sagoma. Oppure cercando di non assomigliarle troppo, per scoprire poi di avere assorbito il suo modo di essere così tanto da seguirne l’esempio senza averne consapevolezza.
Mano a mano che quell’essere “per sempre figlia” si rannicchia più profondamente dentro di me, sto scoprendo che il mio essere madre si stempera in qualcosa di vasto, come se la vita fino ad ora fosse stato un fiume che sta sfociando nel mare. Sto scoprendo che essere madre è in fondo un modo di essere, un modo di pensare al mondo.
Tanto tempo fa ricevetti una telefonata da un amico. “Vorrei che tu parlassi con una ragazza che è incinta, ma ha dei problemi. E’ una cara amica, e credo le farebbe bene parlare con te”. Dissi di sì, pur se immediatamente colta da una smisurata ansia da prestazione. L’aspettai alla stazione e poi andammo a sederci in un bar poco lontano. Era pallida e seria, ancora non aveva nessun segno visibile di gravidanza. Mi raccontò che questo figlio che aspettava lo aveva voluto, ma che adesso si sentiva in uno stato d’animo che non era quello immaginato per tanto tempo. Tutti si aspettavano che lei fosse felice, e invece non lo era. Non che fosse infelice, ma quando le chiedevano con un sorriso che non ammetteva repliche “Sei contenta?” si sentiva in dovere di rispondere sì. La verità è che era malinconica, a volte triste, stranita da sensazioni fisiche che non conosceva, colta talvolta dalla paura. Soprattutto la faceva star male che tutti si aspettassero da lei esternazioni di felicità. Era delusa, e questo le sembrava un sentimento scandaloso, sbagliato.
Non feci nulla di particolare. La ascoltai, le dissi che conoscevo molto bene quello stato, che fa parte del gioco. Le raccontai qualche storia. Ci capimmo. Si rasserenò. Concludemmo che forse bisognerebbe non svelare la propria gravidanza per qualche mese, fino a che non ci si è assestate, per non sentirsi invase dalle aspettative altrui.
Poi lei riprese il treno.
Dato da quell’incontro la mia prima esperienza di doula, anche se di questa parola non conoscevo ancora l’esistenza. Avevo già fatto da “accompagnatrice” a donne che diventavano madri, ero stata al loro fianco anche durante il parto, ma si trattava di amiche più o meno intime. Quella è stata la prima volta che mi sono trovata a farlo con una perfetta sconosciuta.
Essere doula è stato un approdo che non posso dire di avere davvero scelto. E’ andata così, la scelta è stata solo quella di accorgermi di questo anziché di altro.
Mi piace questo stare in ascolto. Andando a tentoni attivo tutte le antenne di cui dispongo, facendole sottili e morbide come quelle delle lumache. Abbasso i miei pensieri e come ad occhi chiusi cerco le chiavi della donna che ho accanto. No, non le chiavi che servono ad aprire le porte, ma piuttosto quelle musicali, disegnate sul pentagramma.
In quale chiave suona la sua musica interiore? Quali sono i principi armonici e melodici che regolano questa musica? Qual è insomma la sua tonalità?
E’ spaventata e vuole solo essere rassicurata, sapere che non sta sbagliando?
Vuole essere una madre perfetta, da Palmarès?
Vuole trovare soluzioni pratiche senza tante smancerie?
Vive questo passaggio come qualcosa di sacro, pieno di coincidenze che la connettono all’armonia dell’universo?
Oppure è decisamente profana, ironica e dissacratoria?
Ha fantasie distruttive?
E’ passionale e fisica col suo neonato?
O piuttosto teme di perdere il tempo per sé stessa e la bellezza delle sue forme?
Galleggia in uno spazio senza tempo?
Oppure è inquieta, smaniosa di riavere una vita normale?
E’ affamata del suo cucciolo lattante, ha una relazione esclusiva con lui?
Oppure questo nuovo essere venuto al mondo è un dono che ha fatto alla piccola comunità in cui vive, alla famiglia?
Se individuo la sua chiave musicale, posso mettermi in accordo con lei, e offrirle qualcosa che può esserle utile.  Un po’ di accudimento, rassicurazioni, qualche utile informazione, delle sane risate. Semplicemente, uno sguardo da cui lei si senta vista.
Ci sono donne che passano il tempo della gravidanza a immaginarsi che madre vogliono essere.  Ce ne sono altre che si affidano al “se ci sono riuscite tutte, ci riuscirò anch’io”.
Magari cercano di informarsi, pianificano un nuovo assetto della casa, magari frequentano corsi con altre mamme in attesa come loro, magari sperano di trovare un posto al Nido. Sistemano  nei cassetti tutine di ciniglia con gli orsetti e pomate alla calendula, coltivando dolci fantasie. 
E poi arriva il tifone, che non di rado coglie di sorpresa anche le più informate.
Perché mi hanno fatto credere che il parto fosse una cosa naturale. Perché mi hanno trattata come un animale. Perché sono sconfitta dal cesareo. Perché mi sembra di avere un vampiro feroce attaccato alle tette. Perché ho le ragadi e piango dal dolore. Perché non capisco perché piange.  Perché non sono più padrona del mio corpo. Perché sono brutta e grassa. Perché piango sempre. Perché tutti mi dicono cosa devo fare. Perché mi sento inadeguata. Perché non mi sento più una donna. Perché sono stanca. Perché mi vergogno di non essere felice.
Perché nessuno me l'aveva detto?
La nascita non è solo l’arrivo di un bel bebè. Troppe cose si danno per scontate, poca cura e attenzione viene riservata ai delicati processi che si mettono in moto con quel miracoloso evento. Eppure tutto incomincia con la nascita, ogni nascita partecipa alla nascita della società, della collettività, del pensiero collettivo (3). Tutti noi siamo nati un giorno, possibile che il lato umano dell’evento ci interessi così poco?
Si dice spesso che la doula sopperisce a quei bisogni che un tempo venivano soddisfatti dalle nonne, dalle zie, dalle vicine di casa; che la società è diventata più frammentata, individualista e che le madri sono più sole del tempo in cui la maternità era un evento condiviso dalla collettività. In parte è sicuramente vero, ma detta così sembrerebbe che un tempo le donne vivessero il loro diventare madri con serenità, che avessero il tempo di covare quella maturazione interiore sempre necessaria, accudite dalle donne di famiglia. Tra le madri di un tempo non c’erano forse quelle profondamente ferite da una gravidanza precoce che le aveva strappate dal nido materno? Oppure da un parto da macelleria? Non c’erano le depresse? Non c’erano anche le madri più bambine dei loro stessi figli, le frustrate, le infelici?
Le madri di un tempo erano più asservite al destino che qualcuno aveva già scritto per loro in quanto donne, questo sì, me non sempre gioivano dell’abbraccio collettivo intorno a loro, a volte semplicemente lo subivano. Le puerpere di un tempo allattavano senza tante smancerie, ma ad ascoltare i loro racconti oggi si scopre che potevano avere ragadi dolorosissime e sanguinanti, proprio come può succedere alle puerpere di oggi, solo che le sopportavano in silenzio. Magari avevano così tanta nostalgia della mamma e delle sorelle da piangerci la notte. Le donne che assistevano ai parti a volte erano una benedizione dal cielo, ma altre volte erano autentiche carogne e come tali vengono ricordate. Le madri che davano troppi segni di inquietudine e avevano molti grilli per la testa, passavano dalla casa al manicomio senza tappe intermedie, chiuse lì con zelo da quella stessa collettività che avrebbe dovuto proteggerle.
Penso che le donne di un tempo avessero meno strumenti di quelle di oggi e che diventassero madri con meno consapevolezza. Oggi, in questa nostra vituperata società, le donne non si accontentano e non si rassegnano facilmente, rimpiangono certe forme di solidarietà collettiva del passato ma la vogliono a modo loro. Se le anziane del passato avevano la funzione di dare alla giovane sposa le regole di comportamento codificate, le donne che diventano madri del giorno d’oggi sono frastornate dalla sovrabbondanza di consigli discordanti tra loro, di “è giusto fare così”, e comunque quello che desiderano è fare a modo loro. Solo che faticano a capire qual è il loro modo. Credo che la doula si collochi tra questi nuovi bisogni, per donne diverse dal passato, per padri diversi, per famiglie diverse, per aspettative diverse.
Recentemente sono stata invitata a portare la mia esperienza di madre e di doula in un gruppo di giovani studentesse universitarie che si riuniscono regolarmente per parlare di sessualità. Come le vecchie partigiane ho dato la mia testimonianza e ho risposto alle loro domande, soprattutto le ho ascoltate raccontare quello che sanno della loro nascita, della nascita dei fratelli, dei loro pensieri e paure riguardo alla maternità. Paura del figlio con gravi disabilità, paura di quello che gli altri si aspettano da una donna che diventa madre, paura di non essere capaci, paura del corpo che si deforma, paura del dolore del parto, paura dell’alieno che cresce dentro al proprio ventre, paura perché non si potrà più tornare indietro, paura di un legame che dura tutta la vita.
Sono paure universali, ed è importante creare spazi protetti per poterle esternare senza peli sulla lingua, sapendo di essere accolte.
Oggi il progresso scientifico e tecnologico consentono di evitare o programmare la maternità, consentono di fecondare un figlio fuori dal proprio corpo, persino di farlo crescere nella pancia di un’altra. Ma sono novità ancora così recenti che ancora non le abbiamo assorbite e se da una parte ci fanno sentire vittoriosi sul determinismo biologico, dall’altro creano nuovi smarrimenti e fragilità, senso di responsabilità e paura di sbagliare che si ingigantiscono a dismisura.
E che dire del bisogno di ascolto e delle donne che vivono un lutto prenatale, di quelle che hanno un figlio prematuro in incubatrice, o che diventano madri in carcere?
No, non sono solo rose e fiori, e ogni singolarità merita ascolto, accoglienza, attenzione.
Quando nasce un bambino nasce anche una madre, nasce un padre e nascono pure dei nonni. Noi  nonne, in particolare, ci sentiamo generalmente molto coinvolte in questo nuovo ruolo.
Mi sono sempre piaciuti i Pokemon, animali di fantasia con cui mio figlio ha giocato per anni. Quando un Pokemon si evolve, diventa un Pokemon di stato superiore. Ebbene, la nonnità è una evoluzione della maternità, un po’ come Raichu è l’evoluzione di Pikachu.
Però, origliando i discorsi delle mamme al parco, noi nonne Raichu abbiamo poco da essere allegre. Un giorno mi sono presa l’incomodo di raccogliere un po’ di commenti sull’argomento nei vari blog e forum sul web. Ho fatto un collage, come fosse un unico discorso, ma è frutto della voce di tante giovani donne.

Sapete consigliarmi un centro rottamazione per genitori e suoceri inutili o addirittura dannosi? Io vorrei metter su in centro di rieducazione per nonni, anche se non sono certa siano recuperabili.  Ho fatto un enorme errore di valutazione: sono venuta per un periodo a casa dei miei nella speranza di essere aiutata con i bambini, e ora vorrei scappare, ma come mi è venuto in mente? Non sa fare altro che darmi sempre tutte le colpe, se è nervoso è colpa mia, se non mangia è colpa mia, se ha il raffreddore è colpa mia. Mia madre mi ha davvero pugnalato al cuore, quando ha detto che sono una meravigliosa madre per neonati, ma non sono in grado di stare dietro a un bambino più grande. Nessun aiuto, solo giudizi sul fatto che mio figlio piangeva sempre perché io ero nervosa. Ogni volta che si portano i bimbi dai nonni c'è sempre da mettere in conto qualche battibecco. Mia madre non mi risparmia niente, eppure è stata mamma anche lei, e anzi lo è ancora. Sa sempre tutto lei, e anche mia suocera sa sempre tutto lei, e però sanno cose differenti. Mia suocera vorrebbe essere la madre di mio figlio, è convinta addirittura che mio figlio creda che la sua mamma è lei, perché io di giorno lavoro e lei se ne prende cura. Fin da quando aveva poche settimane, aveva la pretesa di farlo dormire da lei un giorno alla settimana, e mi diceva melliflua che così potevo distrarmi un po'.

Mica è facile nemmeno essere nonna.
Noi a sessant’anni supponiamo, a differenza delle nostre predecessore, di avere ancora tanta vita davanti, e stiamo un po’ strette nell’iconografia della nonna che al tramonto della vita fa solo torte e lavora a maglia. E proprio come quando eravamo semplicemente madri, prima di esserci evolute in nonne, fatichiamo nella metamorfosi e non siamo tutte buone e felici. Alcune di noi sono depresse, altre cercano di sostituirsi alla figlia nel ruolo di madre, altre si sentono finalmente libere e non sono di nessuna utilità, oppure si identificano nel ruolo di nonne così bene da dimenticare che siamo pur sempre madri. Tante giovani madri me lo dicono: “lei adesso non fa che dire che è diventata nonna e che questo è suo nipote, ma mi fa arrabbiare, perché lei è la mia mamma, e io sono diventata mamma del mio bambino. Detesto quello sguardo mieloso con cui guarda mio figlio appena entra in casa, dovrebbe guardare me in quel modo”. In fondo il ruolo di nonna dovrebbe essere la semplice continuazione del ruolo di madre, che sa contenere e accogliere, lasciando rispettosamente lo spazio alla figlia o al figlio per la sua costruzione filiativa (4).
E poi c’è il rapporto diretto con in nipoti, questi preziosi esseri che ci tengono in contatto con l’esuberanza della vita che va avanti, con il mondo che cambia, con la prepotenza del desiderio di apprendere quando ci potrebbe sembrare di sapere ormai tutto.
Il mio nipote più piccolo ha appena sei anni, adora giocare con i videogiochi on-line, però è piccolo e chiede continuamente supporto. Io non glielo do mai, perché detesto i videogiochi e soprattutto non ci so giocare, che immagino sia la vera ragione per cui li detesto. Ogni volta è una lite, e lo ammorbo con il rosario del "ma perché non fai altri giochi, tra poco spegni che non mi piace che stai inchiodato davanti a uno schermo, è inutile che lo chiedi a me, quando ero piccola questi giochi non esistevano nemmeno, io non ci capisco niente, non potresti giocare con i Lego". 
Poi un giorno mi chiede solo di guardare perché non funziona un certo tasto. Vado a vedere, e cerco di decifrare il meccanismo del gioco, che prevede di fare incontrare due panda attraverso complicate geometrie. Prima mi incuriosisco, provo a capire come funziona, poi mi appassiono. Spingo mio nipote via dalla sedia e mi metto a giocare. Lui si siede accanto, e insieme discutiamo le strategie. Dopo due ore arrivo al trentanovesimo livello del gioco, e lui ogni volta esulta rosso per l’emozione, strillando forte. 

Finché sbotta : "anch'io voglio diventare una nonna come te!".

Questo grido a pieni polmoni spazza via gli ultimi rimasugli del sentirmi figlia, e mi incorona trionfalmente e definitivamente  nonna Raichu.


(1)  F. De Andrè, Ave Maria dall’album La buona novella (1970)
(2) E.Hillesum (1981), Diario1941-1943 Adelphi Edizioni, Milano, 1985, p. 60
(3) S. Marinopoulos (2005), Nell’intimo delle madri Feltrinelli, Milano, 2006, p. 174
(4) Ibidem, pag. 151

articolo pubblicato su Rivista di psicologia analitica, Nuova serie n.35, Volume 87/2013 a cura di Pina Galeazzi e Daniela Palliccia
































1 commento:

  1. Davvero un bell'articolo, grazie. I nonni sono difficili da capire: genitori che ti hanno aiutato a crescere e a sentirti indipendente improvvisamente ti riempiono di indicazioni che somigliano a ordini, e tu ti senti trattata come un'incapace nel momento in cui la tua necessità di percepire autoefficacia è massima. Credo che molte cose si siano incrinate nel mio rapporto con i miei, ma grazie per darmi uno sguardo dall'altro lato.

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