Quando
ero ancora nell’età in cui potevo generare figli dalla mia carne, pensavo che
l’unica cosa certa è che si nasce e si resta figlie, e che invece si diventa
madri ogni giorno, che non è sufficiente aver messo al mondo un bambino, che non
è una cosa imparata una volta per tutte
come l’andare in bicicletta. Che la maternità va scoperta, inventata,
riaggiustata, combattuta, accettata, masticata e digerita, giorno dopo giorno.
Ricordo
di avere trascorso tanto tempo stupefatta che quella cosa, essere diventata
madre, fosse capitata proprio a me. Le prime settimane dopo il primo parto,
quando mi svegliavo alla mattina ero quasi sbalordita che quella neonata fosse
ancora lì, non potevo distrarmi o metterla tra parentesi, lei era sempre lì. Tutto
era diventato laborioso e complicato, anche il minimo garantito per la mia
sopravvivenza come mangiare, dormire, andare in bagno, vestirmi. Le sue
esigenze imperavano, debordavano, sommergevano tutto. Aveva fame, piangeva, la
allattavo, si addormentava, si svegliava, piangeva, aveva fame, la allattavo. Saranno
stati anche i fumi della prolattina e della mancanza di sonno a farmi galleggiare
come in un sogno, ma mi stupivo dell’enormità di quello che era successo, mi
batteva il cuore accorgendomi di quell’ineluttabilità.
Era
esaltante l’irruzione di quella vita.
Era
emozionante.
Era
paurosa.
Giorno
dopo giorno venivo traghettata, con tutte le mie cose, verso qualcosa che mi appariva
favoloso e carico di doni. Prendermi cura di quel cucciolo era la cosa più
bella che mi fosse mai capitata, ne ero perdutamente innamorata, ma piangevo
per un nonnulla e intravedevo fin da subito che tante insidie stavano lì
acquattate, pronte a saltarmi addosso. Qualcosa di me si era aperto, come il
mio corpo si era aperto nel dare alla luce la creatura che per lunghi mesi era
stata rannicchiata nella mia pancia. Mi ero aperta, non potevo più richiudermi
e conoscevo una nuova vulnerabilità. Che cosa mi avrebbe portato quell’esserino?
Quanta genuina felicità? Quanta speranza? Quanta paura? Quanto lacerante
dolore? Potevo ancora essere integra, lucida e intatta come una palla da
biliardo che rotola sbruffonamente nella vita?
Nelle
nascite successive non avrebbe dovuto esserci questo stupore, in fondo lo
sapevo già. Invece c’era, altrettanto forte. Niente sarebbe stato più come
prima, non sarei stata nemmeno più la stessa madre che ero stata fino a quel
momento.
Tra
la donna che diventa madre e il figlio è un continuo processo di
patteggiamento, di adattamento reciproco, fin dal momento in cui l’ovulo
fecondato scende dalle tube e la nuova vita si insedia nella parete uterina, e
può avere un andamento armonioso oppure litigioso. Il corpo si predispone
all’attesa, si è una e allo stesso
tempo si è due. Ricordo le mie
gravidanze come stati di grazia in cui godevo di un intenso rapporto con me
stessa, lunghi pomeriggi trascorsi nel letto ad ascoltare i movimenti nella mia
pancia, ore passate a scrivere su un quaderno i sogni della notte e i ricordi
d’infanzia. Anche quando il mondo che mi circondava non mi concedeva quei
privilegi che ritenevo mi fossero dovuti, me li prendevo a morsi con una
determinazione che non sapevo di avere.
Poi
arriva il giorno in cui ci si separa, si diventa davvero due e mica è facile.
Occorre
imparare l’arte di far convivere tante parti di sé, senza che una parte uccida
l’altra o la faccia crescere esangue come una pianta vissuta nell’ombra o,
peggio ancora, germogliata sotto un sasso.
Imparare
l’arte di amare che, come il respiro, è un dare e un prendere.
Proteggere,
prendersi cura, ma rispettare l’alterità del figlio.
Apprendere
la propria fallibilità. Sapere portare dignitosamente il peso delle colpe che
inevitabilmente si accumulano.
Sapere
andare avanti, anche quando si vacilla.
Per
quella che è la mia storia, il tempo in cui stavo diventando quella che sono
diventata è stato un tempo tumultuoso, in cui la mia crescita si è intrecciata
con la crescita dei miei figli, un processo di maturazione magmatico, simile
alla trasformazione del compost organico. Sono diventata madre molto giovane, è
giusto? E’ sbagliato? I figli bisognerebbe forse averli quando il tempo della
propria formazione si è compiuto? E se anche un tale tempo esiste, non si
avrebbe un’età ormai più adatta a fare la nonna piuttosto che la mamma? E il
diventar madre non sconvolgerebbe forse anche l’assetto più equilibrato e
consolidato?
Comunque
sia, per tanto tempo ho pensato che l’unica cosa certa è che si rimane sempre
figlie, mentre l’essere madre è da imparare ogni giorno. Ho capito invece che
le età della vita spostano le prospettive, i punti di vista. Sto scoprendo
insomma, mano a mano che avanzo recalcitrante verso quel tempo che sarà
l’ultimo, che anche l’essere figlia non è dato per sempre, se non come nocciolo
interiore. E che l’essere madre, così come l’ho vissuto nella baldanza
generativa, è destinato a diventare un fatto acquisito e a sfociare in qualcosa
di molto diverso.
Un
tempo, tanto per dire, mi identificavo nei protagonisti delle storie di cui
venivo a conoscenza. Oggi mi succede sempre più spesso, specie se è una storia
dolorosa, di identificarmi con la madre del protagonista, solitamente assente
dalle scene. La minorenne finita nella tratta della prostituzione, il ragazzo
depresso e abulico, la ragazza suicida, l’adolescente immigrato e incarcerato.
E che dire di Kurt Cobain, ce l’avrà avuta anche lui una madre. Mi viene da
pensare alla madre di Luigi Tenco, alla madre di Amy Winhouse, e persino alla
madre di un mio mito di gioventù, Janis Joplin. Chi ci aveva mai pensato prima,
a tutte queste madri?
Ho
dovuto però vedere i miei figli prendere la loro strada di adulti, per ribaltare
il punto di vista, e identificarmi con la mamma di Amy Winehouse. Essere madri
di adulti è molto diverso che essere madri di bambini, eppure non si è certo
meno madri. “Femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che
stagioni non sente” (1).
Sono
abbastanza evoluta da sapere che è giusto che i figli vivano la loro vita, che
passino i loro dolori, che imbocchino i loro sentieri irti di spine, che la
libertà è un bene supremo. Ma come posso impedirmi di desiderare che questi
figli siano sempre felici, che non conoscano la sofferenza, che non vivano
l’oltraggio della malattia, né la minaccia della morte?
Come
sarebbe, voglio forse che i miei figli non vivano? Che siano dei citrulli
imbalsamati nella formalina? Certo che no, che pensiero blasfemo.
E
però.
Però.
A
volere dire la verità fino in fondo, questo desiderio che i figli siano in
salute e felici non è dettato solo da un amore assoluto, incomparabile ad ogni
altro amore sperimentato, ma anche da un prepotente istinto di
autoconservazione. Il tanto decantato diritto a non farmi divorare dall’essere
madre continuando a coltivare la mia vita di donna, è direttamente
proporzionale al benessere dei miei figli. Di fronte alla loro sofferenza perdo
quegli appigli con la terra che mi fanno stare in equilibrio, quasi tutto mi
appare improvvisamente superfluo e vano. Se una minaccia incombe su di loro,
desidero solo connettermi con quella che Etty Hillesum chiamava la profonda
sorgente, spesso coperta da pietre e sabbia, per trovare la forza necessaria (2).
Resto nella normale quotidianità come fossi l’ologramma di me stessa, pura
apparenza, cerco di nutrire l’invisibile per non sentire i morsi al cuore e
avere quella che un tempo si chiamava forza
d’animo.
Se
si può decidere se e quando diventare madre, non si può decidere se e quando
diventare nonna, ti capita e basta. La prima volta che è successo ho fatto sogni
incredibili, che svelavano una trasformazione in atto di cui da sveglia non mi
rendevo altrettanto conto.
Avevo
sempre avuto un sogno ricorrente.
Entravo in una casa abbandonata, ma ancora piena dei suoi mobili, le sue carte,
i suoi oggetti. Le pareti erano
ingiallite dal tempo, le stanze di aprivano una dopo l’altra, quasi si fosse
trattato di un lungo corridoio, separate tra loro da una porta. Io le
attraversavo piena di emozione, commozione direi, perché sentivo tutti i
misteri che quella casa antica e piena di polvere celava, ma mi restavano tutti
nascosti. Io sapevo che in fondo, nell’ultima stanza, qualcuno si era
ricoverato lì abusivamente, ma non sapevo chi era, né l’ho mai incontrato.
Ebbene,
nei mesi che mi separavano dalla nascita del mio primo nipote, una notte ho
sognato che entravo nella casa. La prima stanza era stata tutta tinteggiata di
nuovo, anche i mobili erano stati rinnovati e non c’erano più tutti quegli
oggetti sparpagliati che c’erano sempre stati. La porta che si affacciava sulla
seconda stanza era chiusa, allora abbassavo la maniglia ma scoprivo che era
stata chiusa a chiave. Chiusa per sempre, perché non ho mai più sognato quella
casa.
Sto
scoprendo che è possibile, e anzi necessario, diventare madre persino della mia
stessa madre, che devo proteggerla, consolarla e stimolarla con attività
didattiche affinchè possa continuare ad aggrapparsi a pezzi di memoria. Con lei
mi capita di attivare la fantasia per inventare piccole strategie risolutive,
proprio come si fa con i bambini. Come quella volta che mio nipote, all’età di
tre anni, buttò il suo Trigro di peluche nel camino, senza rendersi conto che
il fuoco brucia e divora. Lo tirammo prontamente via con le pinze, ma il
peluche era irrimediabilmente strinato, in alcuni punti si era rotto e usciva
l’imbottitura. Lui piangeva inconsolabile. Allora improvvisai un Pronto
Soccorso. Ricoverai Trigro, lo disinfettai con acqua ossigenata, gli misi la
pomata, gli feci un’iniezione, chiusi le ferite con cerotti e garza e
raccomandai a mio nipote di prendersi cura di lui.
Il
peluche continuò a fare il suo dovere di peluche ancora per anni, così
medicato.
Sto
scoprendo anche che la maternità appartiene a tutte le donne, pure a quelle che
di figli non ne hanno generati mai. Anche loro si confrontano con la maternità,
semplicemente perché sono donne. Sia che la temano, che la cerchino invano, che
ne patiscano la mancanza, che si interroghino o che se ne sottraggano
bellamente e godano di questo privilegio. E poi siamo tutte figlie di donne che
ci sono state madri, e non abbiamo mai potuto fare a meno di pensarci “come
se”. Tentando di non assomigliarle mai, o tentando di ricalcarne perfettamente
la sagoma. Oppure cercando di non assomigliarle troppo, per scoprire poi di
avere assorbito il suo modo di essere così tanto da seguirne l’esempio senza
averne consapevolezza.
Mano
a mano che quell’essere “per sempre figlia” si rannicchia più profondamente
dentro di me, sto scoprendo che il mio essere madre si stempera in qualcosa di vasto,
come se la vita fino ad ora fosse stato un fiume che sta sfociando nel mare. Sto
scoprendo che essere madre è in fondo un modo di essere, un modo di pensare al
mondo.
Tanto
tempo fa ricevetti una telefonata da un amico. “Vorrei che tu parlassi con una
ragazza che è incinta, ma ha dei problemi. E’ una cara amica, e credo le
farebbe bene parlare con te”. Dissi di sì, pur se immediatamente colta da una
smisurata ansia da prestazione. L’aspettai alla stazione e poi andammo a
sederci in un bar poco lontano. Era pallida e seria, ancora non aveva nessun
segno visibile di gravidanza. Mi raccontò che questo figlio che aspettava lo
aveva voluto, ma che adesso si sentiva in uno stato d’animo che non era quello
immaginato per tanto tempo. Tutti si aspettavano che lei fosse felice, e invece
non lo era. Non che fosse infelice, ma quando le chiedevano con un sorriso che
non ammetteva repliche “Sei contenta?” si sentiva in dovere di rispondere sì.
La verità è che era malinconica, a volte triste, stranita da sensazioni fisiche
che non conosceva, colta talvolta dalla paura. Soprattutto la faceva star male
che tutti si aspettassero da lei esternazioni di felicità. Era delusa, e questo
le sembrava un sentimento scandaloso, sbagliato.
Non
feci nulla di particolare. La ascoltai, le dissi che conoscevo molto bene
quello stato, che fa parte del gioco. Le raccontai qualche storia. Ci capimmo. Si
rasserenò. Concludemmo che forse bisognerebbe non svelare la propria gravidanza
per qualche mese, fino a che non ci si è assestate, per non sentirsi invase
dalle aspettative altrui.
Poi
lei riprese il treno.
Dato
da quell’incontro la mia prima esperienza di doula, anche se di questa parola non
conoscevo ancora l’esistenza. Avevo già fatto da “accompagnatrice” a donne che
diventavano madri, ero stata al loro fianco anche durante il parto, ma si
trattava di amiche più o meno intime. Quella è stata la prima volta che mi sono
trovata a farlo con una perfetta sconosciuta.
Essere
doula è stato un approdo che non posso dire di avere davvero scelto. E’ andata
così, la scelta è stata solo quella di accorgermi di questo anziché di altro.
Mi
piace questo stare in ascolto. Andando a tentoni attivo tutte le antenne di cui
dispongo, facendole sottili e morbide come quelle delle lumache. Abbasso i miei
pensieri e come ad occhi chiusi cerco le chiavi della donna che ho accanto. No,
non le chiavi che servono ad aprire le porte, ma piuttosto quelle musicali,
disegnate sul pentagramma.
In
quale chiave suona la sua musica interiore? Quali sono i principi armonici e
melodici che regolano questa musica? Qual è insomma la sua tonalità?
E’
spaventata e vuole solo essere rassicurata, sapere che non sta sbagliando?
Vuole
essere una madre perfetta, da Palmarès?
Vuole
trovare soluzioni pratiche senza tante smancerie?
Vive
questo passaggio come qualcosa di sacro, pieno di coincidenze che la connettono
all’armonia dell’universo?
Oppure
è decisamente profana, ironica e dissacratoria?
Ha
fantasie distruttive?
E’
passionale e fisica col suo neonato?
O
piuttosto teme di perdere il tempo per sé stessa e la bellezza delle sue forme?
Galleggia
in uno spazio senza tempo?
Oppure
è inquieta, smaniosa di riavere una vita normale?
E’
affamata del suo cucciolo lattante, ha una relazione esclusiva con lui?
Oppure
questo nuovo essere venuto al mondo è un dono che ha fatto alla piccola
comunità in cui vive, alla famiglia?
Se
individuo la sua chiave musicale, posso mettermi in accordo con lei, e offrirle
qualcosa che può esserle utile. Un po’
di accudimento, rassicurazioni, qualche utile informazione, delle sane risate.
Semplicemente, uno sguardo da cui lei si senta vista.
Ci sono donne che passano il tempo della
gravidanza a immaginarsi che madre vogliono essere. Ce ne sono altre che si affidano al “se ci
sono riuscite tutte, ci riuscirò anch’io”.
Magari cercano di informarsi, pianificano un
nuovo assetto della casa, magari frequentano corsi con altre mamme in attesa come
loro, magari sperano di trovare un posto al Nido. Sistemano nei cassetti tutine di ciniglia con gli
orsetti e pomate alla calendula, coltivando dolci fantasie.
E poi arriva il tifone, che non di rado
coglie di sorpresa anche le più informate.
Perché mi hanno fatto credere che il parto
fosse una cosa naturale. Perché mi hanno trattata come un animale. Perché sono
sconfitta dal cesareo. Perché mi sembra di avere un vampiro feroce attaccato
alle tette. Perché ho le ragadi e piango dal dolore. Perché non capisco perché
piange. Perché non sono più padrona del
mio corpo. Perché sono brutta e grassa. Perché piango sempre. Perché tutti mi
dicono cosa devo fare. Perché mi sento inadeguata. Perché non mi sento più una
donna. Perché sono stanca. Perché mi vergogno di non essere felice.
Perché nessuno me l'aveva detto?
La nascita non è solo l’arrivo di un bel
bebè. Troppe cose si danno per scontate, poca cura e attenzione viene riservata
ai delicati processi che si mettono in moto con quel miracoloso evento. Eppure
tutto incomincia con la nascita, ogni nascita partecipa alla nascita della
società, della collettività, del pensiero collettivo (3). Tutti noi siamo nati
un giorno, possibile che il lato umano dell’evento ci interessi così poco?
Si dice spesso che la doula sopperisce a quei
bisogni che un tempo venivano soddisfatti dalle nonne, dalle zie, dalle vicine
di casa; che la società è diventata più frammentata, individualista e che le
madri sono più sole del tempo in cui la maternità era un evento condiviso dalla
collettività. In parte è sicuramente vero, ma detta così sembrerebbe che un
tempo le donne vivessero il loro diventare madri con serenità, che avessero il
tempo di covare quella maturazione interiore sempre necessaria, accudite dalle
donne di famiglia. Tra le madri di un tempo non c’erano forse quelle
profondamente ferite da una gravidanza precoce che le aveva strappate dal nido
materno? Oppure da un parto da macelleria? Non c’erano le depresse? Non c’erano
anche le madri più bambine dei loro stessi figli, le frustrate, le infelici?
Le madri di un tempo erano più asservite al
destino che qualcuno aveva già scritto per loro in quanto donne, questo sì, me
non sempre gioivano dell’abbraccio collettivo intorno a loro, a volte
semplicemente lo subivano. Le puerpere di un tempo allattavano senza tante
smancerie, ma ad ascoltare i loro racconti oggi si scopre che potevano avere ragadi
dolorosissime e sanguinanti, proprio come può succedere alle puerpere di oggi,
solo che le sopportavano in silenzio. Magari avevano così tanta nostalgia della
mamma e delle sorelle da piangerci la notte. Le donne che assistevano ai parti a
volte erano una benedizione dal cielo, ma altre volte erano autentiche carogne
e come tali vengono ricordate. Le madri che davano troppi segni di inquietudine
e avevano molti grilli per la testa, passavano dalla casa al manicomio senza
tappe intermedie, chiuse lì con zelo da quella stessa collettività che avrebbe
dovuto proteggerle.
Penso che le donne di un tempo avessero meno strumenti di
quelle di oggi e che diventassero madri con meno consapevolezza. Oggi, in
questa nostra vituperata società, le donne non si accontentano e non si
rassegnano facilmente, rimpiangono certe forme di solidarietà collettiva del
passato ma la vogliono a modo loro. Se le anziane del passato avevano la
funzione di dare alla giovane sposa le regole di comportamento codificate, le
donne che diventano madri del giorno d’oggi sono frastornate dalla
sovrabbondanza di consigli discordanti tra loro, di “è giusto fare così”, e
comunque quello che desiderano è fare a modo loro. Solo che faticano a capire
qual è il loro modo. Credo che la doula si collochi tra questi nuovi bisogni,
per donne diverse dal passato, per padri diversi, per famiglie
diverse, per aspettative diverse.
Recentemente sono stata invitata a portare la
mia esperienza di madre e di doula in un gruppo di giovani studentesse
universitarie che si riuniscono regolarmente per parlare di sessualità. Come le
vecchie partigiane ho dato la mia testimonianza e ho risposto alle loro
domande, soprattutto le ho ascoltate raccontare quello che sanno della loro
nascita, della nascita dei fratelli, dei loro pensieri e paure riguardo alla
maternità. Paura del figlio con gravi disabilità, paura di quello che gli altri
si aspettano da una donna che diventa madre, paura di non essere capaci, paura
del corpo che si deforma, paura del dolore del parto, paura dell’alieno che
cresce dentro al proprio ventre, paura perché non si potrà più tornare
indietro, paura di un legame che dura tutta la vita.
Sono paure universali, ed è importante creare
spazi protetti per poterle esternare senza peli sulla lingua, sapendo di essere
accolte.
Oggi il progresso scientifico e tecnologico
consentono di evitare o programmare la maternità, consentono di fecondare un
figlio fuori dal proprio corpo, persino di farlo crescere nella pancia di un’altra.
Ma sono novità ancora così recenti che ancora non le abbiamo assorbite e se da
una parte ci fanno sentire vittoriosi sul determinismo biologico, dall’altro
creano nuovi smarrimenti e fragilità, senso di responsabilità e paura di
sbagliare che si ingigantiscono a dismisura.
E che dire del bisogno di ascolto e delle
donne che vivono un lutto prenatale, di quelle che hanno un figlio prematuro in
incubatrice, o che diventano madri in carcere?
No, non sono solo rose e fiori, e ogni
singolarità merita ascolto, accoglienza, attenzione.
Quando nasce un bambino nasce anche una
madre, nasce un padre e nascono pure dei nonni. Noi nonne, in particolare, ci sentiamo
generalmente molto coinvolte in questo nuovo ruolo.
Mi sono sempre piaciuti i Pokemon, animali di
fantasia con cui mio figlio ha giocato per anni. Quando un Pokemon si evolve,
diventa un Pokemon di stato superiore. Ebbene, la nonnità è una evoluzione
della maternità, un po’ come Raichu è l’evoluzione di Pikachu.
Però, origliando i discorsi delle mamme al parco, noi
nonne Raichu abbiamo poco da essere allegre. Un giorno mi sono presa l’incomodo
di raccogliere un po’ di commenti sull’argomento nei vari blog e forum sul web.
Ho fatto un collage, come fosse un unico discorso, ma è frutto della voce di
tante giovani donne.
Sapete consigliarmi un centro
rottamazione per genitori e suoceri inutili o addirittura dannosi? Io vorrei
metter su in centro di rieducazione per nonni, anche se non sono certa siano
recuperabili. Ho fatto un enorme errore di valutazione: sono venuta per
un periodo a casa dei miei nella speranza di essere aiutata con i bambini, e
ora vorrei scappare, ma come mi è venuto in mente? Non sa fare altro che darmi
sempre tutte le colpe, se è nervoso è colpa mia, se non mangia è colpa mia, se
ha il raffreddore è colpa mia. Mia madre mi ha davvero pugnalato al cuore,
quando ha detto che sono una meravigliosa madre per neonati, ma non sono in
grado di stare dietro a un bambino più grande. Nessun aiuto, solo giudizi sul
fatto che mio figlio piangeva sempre perché io ero nervosa. Ogni volta che si
portano i bimbi dai nonni c'è sempre da mettere in conto qualche battibecco.
Mia madre non mi risparmia niente, eppure è stata mamma anche lei, e anzi lo è
ancora. Sa sempre tutto lei, e anche mia suocera sa sempre tutto lei, e però
sanno cose differenti. Mia suocera vorrebbe essere la madre di mio figlio, è
convinta addirittura che mio figlio creda che la sua mamma è lei, perché io di
giorno lavoro e lei se ne prende cura. Fin da quando aveva poche settimane,
aveva la pretesa di farlo dormire da lei un giorno alla settimana, e mi diceva
melliflua che così potevo distrarmi un po'.
Mica è facile nemmeno essere nonna.
Noi a sessant’anni supponiamo, a differenza delle nostre
predecessore, di avere ancora tanta vita davanti, e stiamo un po’ strette
nell’iconografia della nonna che al tramonto della vita fa solo torte e lavora
a maglia. E proprio come quando eravamo semplicemente madri, prima di esserci
evolute in nonne, fatichiamo nella metamorfosi e non siamo tutte buone e
felici. Alcune di noi sono depresse, altre cercano di sostituirsi alla figlia
nel ruolo di madre, altre si sentono finalmente libere e non sono di nessuna
utilità, oppure si identificano nel ruolo di nonne così bene da dimenticare che
siamo pur sempre madri. Tante giovani madri me lo dicono: “lei adesso non fa
che dire che è diventata nonna e che questo è suo nipote, ma mi fa arrabbiare, perché lei è la mia mamma, e io sono diventata mamma del
mio bambino. Detesto quello sguardo
mieloso con cui guarda mio figlio appena entra in casa, dovrebbe guardare me in
quel modo”. In fondo il ruolo di nonna dovrebbe essere la semplice
continuazione del ruolo di madre, che sa contenere e accogliere, lasciando
rispettosamente lo spazio alla figlia o al figlio per la sua costruzione filiativa
(4).
E poi c’è il rapporto diretto con in nipoti, questi
preziosi esseri che ci tengono in contatto con l’esuberanza della vita che va
avanti, con il mondo che cambia, con la prepotenza del desiderio di apprendere
quando ci potrebbe sembrare di sapere ormai tutto.
Il mio nipote più piccolo ha appena sei anni, adora
giocare con i videogiochi on-line, però è piccolo e chiede continuamente supporto.
Io non glielo do mai, perché detesto i videogiochi e soprattutto non ci so
giocare, che immagino sia la vera ragione per cui li detesto. Ogni volta è una
lite, e lo ammorbo con il rosario del "ma perché non fai altri giochi, tra
poco spegni che non mi piace che stai inchiodato davanti a uno schermo, è
inutile che lo chiedi a me, quando ero piccola questi giochi non esistevano
nemmeno, io non ci capisco niente, non potresti giocare con i Lego".
Poi un giorno mi chiede solo di guardare perché non funziona un certo tasto.
Vado a vedere, e cerco di decifrare il meccanismo del gioco, che prevede di
fare incontrare due panda attraverso complicate geometrie. Prima mi
incuriosisco, provo a capire come funziona, poi mi appassiono. Spingo mio
nipote via dalla sedia e mi metto a giocare. Lui si siede accanto, e insieme
discutiamo le strategie. Dopo due ore arrivo al trentanovesimo livello del
gioco, e lui ogni volta esulta rosso per l’emozione, strillando forte.
Finché sbotta : "anch'io voglio diventare una nonna come te!".
Questo grido a pieni polmoni spazza via gli ultimi rimasugli
del sentirmi figlia, e mi incorona trionfalmente e definitivamente nonna Raichu.
(1) F. De Andrè, Ave Maria dall’album La buona novella (1970)
(2) E.Hillesum (1981), Diario1941-1943 Adelphi Edizioni, Milano, 1985, p. 60
(3) S. Marinopoulos (2005), Nell’intimo delle madri Feltrinelli, Milano, 2006, p. 174
(4) Ibidem, pag.
151
articolo pubblicato su Rivista di psicologia analitica,
Nuova serie n.35, Volume 87/2013 a cura di Pina Galeazzi e Daniela Palliccia
Davvero un bell'articolo, grazie. I nonni sono difficili da capire: genitori che ti hanno aiutato a crescere e a sentirti indipendente improvvisamente ti riempiono di indicazioni che somigliano a ordini, e tu ti senti trattata come un'incapace nel momento in cui la tua necessità di percepire autoefficacia è massima. Credo che molte cose si siano incrinate nel mio rapporto con i miei, ma grazie per darmi uno sguardo dall'altro lato.
RispondiElimina