martedì 13 novembre 2012

Parla come mangi




Le parole che si usano fanno cultura, e al tempo stesso sono i segni rivelatori della cultura di una società.
Il linguaggio medico-scientifico o tecnico che dir si voglia, è sempre più onnipresente, anche quando si parla di gravidanza, nascita, maternità.  E' questo il linguaggio privilegiato, l'unico che sembri dare il patentino di "serietà" a ciò che si sta dicendo. Si parla di evidenze scientifiche, di protocolli, di psicoprofilassi, di continuità assistenziale, di picchi di ormoni, di tabelle di crescita.

Abbiamo baccagliato tanto per affermare che la gravidanza non è una malattia, che è un'esperienza che coinvolge il corpo, le emozioni, gli affetti e la cultura nella quale avviene. Che è opportuno che il concetto di salute  coincida con il concetto di benessere. Che nemmeno il neonato è un malato, se è sano.  Che insomma mamma in attesa e successivo bebè non sono da trattare con strumenti solo sanitari.
E invece eccoci qua, immersi in un linguaggio che istintivamente associamo alla malattia o comunque a qualcosa di molto lontano dalla vita normale, quella piena di odori, sapori e colori, piena di bellezza e piena di difetti. Quella vita nutrita dalle relazioni, e anche addolorata dalle relazioni.
Gli stessi promotori della  fisiologia usano questo linguaggio, perchè altrimenti non sembrano concetti sufficientemente seri, credibili, scientifici.
La ricerca scientifica dovrebbe essere quel metodo tenuto in vita dal dubbio, dunque dalla capacità di mettere in crisi le proprie teorie e scoperte, per potere continuare a ricercare. Ma noi umani siamo esseri bisognosi di certezze, e quanto più ci sentiamo vulnerabili, tanto più ne abbiamo bisogno. Così le "evidenze scientifiche" diventano verità assolute, anzi di più: diventano prescrizioni.
Non potremmo provare ad usare un altro linguaggio?

Nessun commento:

Posta un commento