giovedì 22 aprile 2010

il corpo delle donne



Se il corpo degli uomini contemporanei vive sostanzialmente come quello dei loro bisnonni e pure dei loro padri, affrontando la modernità solo nel momento della morte perché rischia di essere tenuto in stato vegetativo per un tempo illimitato, il corpo delle donne è attraversato, trasformato da questa stessa stessa modernità, e abbiamo ben poco in comune con le nostre bisnonne.

La pillola permette di programmare il corpo così come un computer; nel momento in cui un test certifica un concepimento ci si può chiedere cosa scegliere; una donna incinta è monitorata e può mettere nell'album la foto di suo figlio al terzo mese di gestazione. Cose inimmaginabili per mia bisnonna.

La maternità è un tema centrale nella vita delle donne, sia che facciano figli sia che non ne facciano, perché la vita degli umani è sempre nata e cresciuta nel corpo delle donne. Oggi non è più così, e non solo perché è possibile essere concepiti in provetta, o cresciuti nel corpo di una donna in coma vegetativo, tenuto in vita per fare da terreno di coltura. L'idea che la vita nasce dentro il corpo delle donne, che la donna incinta è un'unità inscindibile e non l'incubatore di una “Vita” non c'è più, e le donne sono complici di questa svendita. E' avvenuta una progressiva separazione tra la madre e il feto, rappresentato come un cosmonauta nel suo universo asettico in prima pagina sul National Geographic. Ecografia, amniocentesi, test dei villi coriali, diagnosi prenatale, la donna in gravidanza non è una donna incinta ma l'incubatrice del suo bambino (che si chiama già così quando appare la riga blu nel test...), scrutata dentro all'utero, tutelata come un'incapace con una guerra preventiva benedetta anche dai pacifisti, fino ad arrivare al 65% di cesarei di Reggio Calabria. Oggi si arriva persino a discutere della figura giuridica dell'embrione ! Ovvero, la donna è sempre più decorporeizzata. Tessere la propria vita, la propria immaginazione, i propri sogni, i propri riferimenti simbolici da decorporeizzata ha delle conseguenze e personalmente penso che siano conseguenze negative. Chiediamoci qual'è la strada che ha portato da “Il corpo è mio e lo gestisco io” alla figura giuridica dell'embrione e al 65% di cesarei di Reggio Calabria. E chiediamoci anche dove sia lo scandalo, se lo scopo condiviso è tutelare “la Vita”.

Non sono nostalgica dei bei tempi di una volta, e sono molto critica nei confronti di tanto “naturalismo” che gira sull'argomento. Non credo nella difesa del “naturale” in quanto tale, perché mi sembra una parola priva di significato, e non mi interessano i pannolini lavabili (si fabbricassero i biodegradabili). Mi interessa la questione del corpo femminile come avamposto della rivoluzione che la tecnologia sta operando da trent'anni a questa parte, senza per questo pensare di tornare .....dove poi?

martedì 6 aprile 2010

Norma Fulgeri, la mia ostetrica

La Norma era una donna coraggiosa e generosa. Ha amato intensamente il suo lavoro che era un lavoro modesto, un mestiere che viene ormai considerato un rudere da soffitta. Io ho avuto la fortuna di conoscerla nel 1978, partorii con lei la mia prima figlia e negli anni successivi partorii anche gli altri due. Sempre in casa, e una volta andai a San Benedetto Val di Sambro da Bologna in una casa che mi prestò un’amica, per potere partorire con lei, perché avevo paura che non arrivasse in tempo.
Siamo state in tante a voler partorire a casa assistite da lei, in anni in cui l’ospedale veniva già considerato l’unico posto sicuro per far nascere i bambini, con i medici e tutte le strumentazioni tecniche. Lei usava solo le sue mani, il suo stetoscopio di legno che aveva comprato dopo il diploma, la sua sensibilità e la sua capacità di entrare in sintonia con la donna che assisteva. Arrivava con la sua valigetta di metallo, sempre la stessa, si infilava il grembiule bianco, chiedeva una bacinella e sapeva adattarsi a qualunque situazione.. Aspettava con pazienza, perché, come amava dire, “premma o dopp i nasen tott” (prima o dopo, nascono tutti), sapeva ascoltare e  dire le cose giuste. Ti faceva sentire al sicuro,  che stavi facendo tutto bene,  ti faceva trovare la tua strada, e questa è una cosa preziosa di cui dovremo sempre ringraziarla.
Aveva deciso di fare l’ostetrica quando aveva dodici anni. La mamma era in camera da letto con le doglie e urlava e la levatrice era seduta accanto al camino. Lei sentiva le urla della mamma e rimase choccata così decise “da grande farò l’osterica, insegnerò alle donne a non avere paura e a non urlare, che sennò la forza se ne va tutta nelle urla, gli comunicherò sicurezza", diceva che il parto è una cosa naturale, che le donne  vanno seguite nei momenti difficili del travaglio, e che non bisogna mai dimenticare che il bambino ha tanto risorse.
Studiò a Bologna e lavorò sia alla Maternità che al S.Orsola, diceva di avere lavorato giorno e notte e di non avere pensato ad altro in quel periodo, per lei far nascere i bambini era una missione, una vocazione, ed è stato così per tutta la vita.
Diceva che era sempre stata portata in palmo di mano dai professori con cui aveva studiato e di sicuro è vero.
Arrivò a S.Benedetto come ostetrica condotta quando aveva venticinque anni e c’era una gran miseria, le case dei contadini erano sparse nella vallata e d’inverno c’era la neve alta. Lei si muoveva a piedi oppure a cavallo, e una volta il cavallo scivolò con le zampe davanti sulla neve, lei fece una brutta caduta e si incassò un’anca, che poi le ha sempre dato dei problemi Sentì di essersi fatta molto male ma strinse i denti perché la donna che doveva raggiungere aveva una sofferenza fetale, lei si esprimeva con questa terminoilogia, e non c’era tempo per pensare ad altro.
Le donne allora usavano partorire senza chiamare l’ostetrica. La suocera, le amiche della suocera e le anziane si radunavano nella stanza della partoriente e aspettavano  che il travaglio andasse avanti lavorando all’uncinetto o facendo le trecce di paglia da vendere a Firenze e a Monghidoro. Poi quando era il momento aiutavano la donna e lavavano e fasciavano il bambino. Se c’era qualcosa che non andava la mandavano a chiamare. Una delle prime volte che la chiamarono lei arrivò troppo tardi e la bambina era già morta, non c’era più niente da fare. Allora lei cominciò a dire che se la chiamavano subito non le faceva pagare e sennò sì. Quando arrivava poi faceva uscire tutte, dicendo che si vergognava a lavorare davanti a loro. Non era vero naturalmente, lo diceva per non offenderle, la verità era che le cose si facevano così perché era usanza fare così, e se la donna si fosse azzardata a mandarle via ne sarebbero venute fuori delle questioni famigliari infinite, ma la donna che stava partorendo magari non si sentiva a suo agio, si vergognava e non si sentiva libera. E quando una donna non si sente a suo agio il parto si ferma e iniziano le complicazioni.
Diceva sempre di essere stata molto fortunata, che nessun bambino le era morto durante il parto, che ha sempre avuto un sesto senso che la guidava, e tanta fede.

Ha sempre tenuto annotato tutto del suo lavoro, fin dal primo parto che seguì. Scriveva il nome della donna, del padre, l’andamento della gravidanza, la data prevista e quella effettiva del parto, il peso del bambino, se c’erano state o no delle patologie., cinque o sei righe in tutto. Teneva questi quaderni in una casseta da frutta, e c’erano anche tanti foglietti sparsi. Una volta mi chiese aiuto per riordinare tutto e incominciammo a farlo, ma purtroppo non abbiamo mai finito. Per me furono incontri bellissimi, mentre io scrivevo quello che mi dettava lei mi ha raccontato cinquant’anni di storia d’Italia, solo attraverso le storie delle donne nel loro momento più delicato e intimo, quello in cui stanno diventando madri.
Aveva già più di settant’anni, faceva confusione tra i nomi delle persone e ripeteva sempre le stesse cose, ma non ha mai dimenticato un solo parto, nei minimi particolari, nonostante fossero migliaia, perché tutti erano stati vissuti come degli eventi unici.
La prima volta che ho partorito con lei ero molto giovane, e lei mi faceva un po’ paura con la sua aria spiccia, così le dissi che volevo fare tutto da sola, che non volevo che mi aiutasse, che intervenisse solo in caso di complicazioni. Poi, al dunque, mi attaccai così tanto a lei che non volevo che distogliesse nemmeno i suoi occhi da me. Così poi mi ha sempre presa in giro, "Eh....voglio fare tutto da sola voglio fare tutto da sola, e poi non potevo nemmeno girarmi!"

lunedì 22 marzo 2010

Gli anni 70, la maternità e tre libri

Fino a metà degli anni 70 se eri incinta ti sposavi, salvo eccezioni. Anche se eri una Compagna che metteva in discussione le fondamenta della famiglia, anche se stavi con uno che aveva la barba come Guccini o le perline al collo come Jimi Hendrix Il sistema patriarcale e sessista era forte e robusto, e i Compagni non facevano eccezione.
Gli abiti premaman erano pensati per mascherare la pancia, la parola “parto” era considerata sconcia, a “incinta” si preferiva “stato interessante” e  il corpo femminile gravido non aveva alcuna attrattiva.
 Ma soprattutto non potevi resistere al trascorrere la gravidanza seguendo la prassi: ginecologo, esami periodici, ospedale, sala parto. Il tuo corpo saliva su un tapis roulant già preallestito. Anche quando il movimento delle donne prese forza, e mise  al centro del proprio  lavoro di autocoscienza  il corpo,  anche quando si leggeva “Noi e il nostro corpo”, anche quando si diceva Riprendiamoci il corpo, oppure La pancia è mia e la gestisco io, la maternità restò fuori.
In fondo fare un figlio significava uscire dal movimento, uscire dall'impegno politico, dall'emancipazione. L'emancipazione era rappresentata piuttosto dal diritto al lavoro, dal rifiuto del dovere morale di fare la madre, dagli anticoncezionali e dall'aborto legalizzato. Questi erano i temi.
Se fossi una storica potrei forse ricostruire le tappe del percorso. Ma non lo sono, e inoltre ero giovanissima. So però che arrivarono due libri, “Riprendiamoci il Parto” e “Per una nascita senza violenza”.
E non arrivarono invano.

giovedì 18 marzo 2010

A proposito del parto

Gironzolando in rete, ho trovato alcuni blog di mamme o future mamme che discutono di epidurale. Ora, l'argomento mi preme, perchè mi sento responsabile di quello che lasciamo in eredità, e poi prima di essere una nonna sono stata una semplice madre (ora direi che sono una madre elevata al quadrato).
Ecco l'annosa questione: le donne devono o no partorire con dolore?? Gira e rigira, sempre qua siamo.....
Le donne hanno diritto a potere accedere alla epidurale, se lo desiderano, senza il limite posto da questioni economiche o operatori insensibili, e va bene. Ma è tutta qua la conquista che la modernità offre alla donna che si appresta a mettere al mondo un figlio?
Le partorienti hanno diritto ad essere assistite da persone sensibili e preparate, in grado di fare da sponda all’uragano interiore che stanno attraversando. Hanno diritto ad essere sostenute in un percorso che non è solo fisiologico ma esistenziale, in una situazione che le faccia sentire forti e fiduciose nelle proprie capacità. Hanno diritto a partorire in un ambiente bello e sereno, a casa propria se lo desiderano.

Hanno diritto anche a sapere che un parto con l’epidurale sarà probabilmente maggiormente assistito (flebo, monitoraggio continuo, oxitocina). E che aumenta la probabilità di interventi meccanici. Insomma, che la partoriente sarà ben poco padrona della situazione, e che questo ha un costo.... se non sei padrona della situazione, se non sei padrona del tuo corpo.... di riffa o di raffa la paghi.
Porre la questione in termini di “dolore sì o dolore no” non è solo riduttivo, è anche fuorviante. Personalmente penso che il dolore sia funzionale e utile per superare quella gran prova che è il parto, ma questa è la mia opinione, legata alla mia esperienza, e non vorrei sembrar fanatica.

martedì 23 febbraio 2010

Una nonna speciale, anzi due


Nata e cresciuta negli Stati Uniti da madre asiatica e padre americano, con origini che attraversano l’Indonesia, la Cina, le Filippine, la Germania, l’Irlanda, Robin Lim fino al 1992 ha vissuto con i suoi primi 4 figli, avuti da due uomini diversi, in America, in una fattoria dove scriveva e insegnava poesia. Poi, con un terzo uomo, ha fatto il quinto figlio.
Una notte, quando aveva 36 anni, ha fatto un sogno. La nonna filippina, levatrice tradizionale, le portava in regalo un bel vestito giallo. "Indossalo! "diceva, sorridendo. Lei esitava ma poi si fece convincere e lo indossò. La nonna scoppiò a ridere e disse: "d'ora in poi avrai molto da fare!
Da allora le donne cominciarono ad andare a casa di Robin a chiedere consigli e aiuto. Durante una gravidanza, quando già si era trasferita a vivere in Indonesia, due civette caddero dal nido e lei le allevò. In Indonesia questo è considerato un segno di fortuna e le donne del villaggio decisero che Robin sarebbe stata la loro “raccoglitrice di bambini”.
Così ha studiato, è diventata ostetrica, ha imparato dal lavoro negli ospedali,  dal movimento delle midwife americane, da chi aveva fatto tesoro degli insegnamenti di Michel Odent e dalle donne del villaggio al di là del fiume Singa Kerta, nella foresta delle scimmie.
Oggi la chiamano Ibu Robin Lim, vive e lavora come ostetrica a Bali, dove ha istituito una piccola  clinica  Lì le donne povere e marginali possono partorire assistite con competenza e amore.
Come una delle tessitrici che vivono nel cuore dell’isola, le quali si tramandano un’arte a rischio di estinzione, anche Ibu Robin annoda un filo dopo l’altro con grande pazienza, perché ciò che si sta sfilacciando possa divenire un tessuto forte e bello a vedersi. Questi fili sono il sapere e l’alleanza femminile, la gestione solidale e comunitaria della salute, il riconoscimento del valore esistenziale e spirituale dell’esperienza della maternità.
Oggi è a sua volta, naturalmente, nonna.
E la sua nonna levatrice? Lei morì in vasca da bagno, scivolando sott'acqua dolcemente. Dopo aver trascorso la vita ad accogliere bambini che uscivano dall'acqua del ventre materno, lei ci ritornò.