mercoledì 18 febbraio 2015

Quando un cerchio si chiude

Pablo Picasso, Maternità



Da pochi giorni si è chiuso un tempo importante della mia vita: quello dell’allattamento.  Per tre anni e mezzo ho prodotto e donato il latte ai miei due bambini e da mesi sentivo il desiderio di prendermi spazi solo miei, ritrovare il mio corpo di donna, e non solo di madre, respirare una libertà che apparteneva al mio passato e che volevo ritrovare. Che difficile per me questo passaggio! Voluto e poi posticipato tante volte fino a che ho preso coscienza, nel mio profondo, che così andava bene per me, ora. 

Ieri ho salutato il mio latte affidandolo alla terra e ringraziandolo per essere stato con me così tanti anni e aver nutrito i miei figli con tutta la sua genuinità. Ho versato tante lacrime. Per me è un altro passaggio nel lasciare andare i miei figli, staccarmi un po’ da loro, percepire che sono del mondo, appartengono al mondo. Dopo il parto, il primo grande distacco, ecco che finisce per me questa intimità così forte che ho avuto con loro nel dargli la tetta come e quando lo volevano. 

Non c’ è una ricetta per come e quando finire di allattare, ogni donna e ogni bambino hanno il proprio sentire, per me è stata dura e risveglia antichi ricordi di me bambina, dell’attaccamento verso i miei genitori. Rivivo, guardando i miei figli, la mia difficoltà a staccarmi dai miei genitori e lo stomaco mi si contorce. Eppure so che questa scelta è giusta per me. Forse non lo è per loro, Tobias è arrabbiato, mi vuole e poi mi respinge, affonda la sua manina nel seno e si addormenta così e mi pare che vada bene anche in questo modo, in fondo. Si è gettato sul cibo, gode di tanti sapori e continua a corrermi incontro quando torno dopo un’uscita. Tobias l’ho sempre sentito nella mia sfera, una parte di me e ora, inevitabilmente, qualcosa cambia e lui si apre anche al papà che soffriva di questa nostra simbiosi.

Oggi mi sento un pochino nuda, dopo tanti anni di latte, mi pare che mi manchi una parte. D’altro lato respiro una libertà che mi fa girare la testa! Non dico che ora me ne andrò sola per il mondo, ma so che potrò lasciare il mio piccolo anche per qualche notte senza che lui svegli tutto il vicinato.


Mi viene in mente quella poesia di Gibran, “i tuoi figli non sono figli tuoi”, appesa sul muro della stanza dei miei, non l’avevo capita subito quando ero bambina. Oggi la capisco, la faccio mia.

martedì 17 febbraio 2015

Libere di, libere da

Pablo Picasso, Due donne che corrono sulla spiaggia


Libertà di scelta…libere di, libere da…e la prima cosa che mi viene in mente  è che forse risuona un po' vetero femminista tipo il patchuli, gli incensi e le zeppe.
Per noi che siamo nate dopo i cortei e dopo le lotte, cosa vuol dire interrogarsi sulla libertà di scelta? Per noi che siamo state libere di scegliere quando, come, se fare sesso, che i preservativi li abbiamo sempre trovati  pure al supermercato , la pillola la si prendeva anche  con la scusa dell’acne e l’aborto ancorché emotivamente complicato era fattibile senza incappare in mammane armate di ferro da calza, e  senza dover volare per forza a  Londra con voli costosissimi e dannatamente  tristi…
Noi siamo la prima  generazione figlia di chi ha potuto divorziare liberamente….quindi mi  viene da chiedermi “ Ma ha ancora un senso sta storia della libertà di scelta??”
E allora mi guardo intorno, osservo e penso….

Penso a chi deve lasciare il lavoro o rinunciare alla carriera per i figli e a chi deve rinunciare a fare figli per non perdere il lavoro o la promozione. Penso a chi deve cambiare città o regione per una IVG*, perché tanti ospedali hanno in organico solo medici obiettori. ..e  poi a chi vorrebbe lepidurale e non la trova, a chi vorrebbe un VBAC** e incontra  solo persone che nemmeno la prendono in considerazione.
Penso a chi è prigioniera di un matrimonio che non funziona perché il mercato del lavoro è un disastro ed essere economicamente indipendenti diventa  un sogno quasi irrealizzabile. Penso alle immigrate di seconda generazione che vogliono studiare e scegliere se portare il velo o no, se sposarsi oppure no e al solo  proferire la parola Libertà vengono picchiate o recluse in casa. Infine penso a tutte le donne che ogni anno muoiono perché scelgono di separarsi o di lasciare un marito o un fidanzato possessivo e violento…. ed è proprio  quella donna che muore ogni due giorni ***che mi fa pensare : Libere di, Libere da…è ancora un tema su cui discutere ed interrogarsi.


*Interruzione Volontaria di Gravidanza 
**Vaginal Birth After Cesarean: Parto vaginale dopo un cesareo

***Il 2014 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2013, le donne ammazzate sono aumentate del 14%. A rilevarlo è l'Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne.

giovedì 12 febbraio 2015

Non mi piego a una diagnosi

foto di Dorothea Lange


di Marzia Bisognin



Io continuo con la sola forza nel non piegarmi, del volermi bene anche in questa mia situazione, del non fare a me stessa quello che la società fa alle mamme che non ce la fanno. Non mi piego a una diagnosi, non mi piego a un modello, mi prendo e mi guardo, e chissà che questo non serva anche a quel figlio con cui fatico tanto, chissà che con questo io non gli stia insegnando ad amarsi anche quando si troverà a confrontarsi con il buio di se stesso.

Questa è la chiusura di un post pubblicato sul blog di Eretica (altrimenti conosciuta come Abbatto i muri).
Eretica sta ospitando una straordinaria raccolta di testimonianze di donne sul tema della maternità. Tutto è partito da un racconto che lei ha ricevuto, e che ha pubblicato con l'inequivocabile titolo "Ho un figlio: sono pentita di non aver abortito". E da lì è successo che, per dirla con parole sue, "il post non ha aperto un varco: ha fatto crollare una parete intera. E’ venuto giù il velo di ipocrisia che resta sempre presente quando si parla di amore materno".
Ogni volta succede così. Ogni volta che una madre si fa coraggio e dice quanto sia difficile per lei, quanto si senta distaccata dal figlio, quanto le risulti penosa la vita che si sente costretta a fare, quanto si senta frustrata, si aprono le cataratte, e prima una, poi un'altra e poi un'altra..... scoppiano e si aprono una dopo l'altra, con un effetto pop-corn in padella, avete presente quello scoppiettio crescente? Questo fenomeno lo ha raccontato molto bene Deborah Papisca nel suo Di materno avevo solo il latte.

Sono storie a cui è bene accostarsi disarmate, perchè di fronte a chi ha il coraggio di denudarsi occorre deporre qualunque cosa che abitualmente sappiamo usare come arma: il giudizio, la morale, l'ideologia o la nostra esperienza personale. Sono storie ustionanti oppure fredde come il ghiaccio, che possono far male perchè in fondo riguardano tutte. Chi è la madre che in tutta onestà possa dire di non sapere cosa sia quel gorgo scuro che rende intollerabile un pianto in più, una richiesta in più, un'incombenza in più, un risveglio notturno in più? Perchè non lo si può dire senza essere sommerse di disapprovazioni mugugnate, consigli paternalisti, diagnosi raffazzonate, pallosissime spiegazioni razionali?
Quella tra madre e figlio è una relazione, e come tutte le relazioni ha bisogno di autenticità. La maternità è meravigliosa e terribile nello stesso modo in cui è meravigliosa e terribile la vita, piena di gioia e di dolore, di corse a rotta di collo e di inciampi. Tutto è in continua mutazione, ma ogni dolore inespresso si cristallizza e non può trasformarsi.

Per una volta anch'io rimpiango qualcosa dei tempi andati, e ne propongo il recupero, linciatemi pure. Mi riferisco alle ninne nanne truculente, così liberatorie, capaci di depurare dalle tossine delle notti insonni. Tipo Ninna aa ninna o questo bimbo a chi lo do, lo darò all'uomo nero che lo tiene un anno intero
Beh, comunque abbiamo il bellissimo Fai 'sta cazzo di nanna.
E allora concludo con un'eccellenza del truculento, un video del favoloso Paolo Poli.




lunedì 9 febbraio 2015

Quanto mi manca il Cerchio ...considerazioni sulla nascita e la morte


Paul Gauguin, Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo



Sono Francesca e con Marzia ho partecipato per circa due anni al cerchio che ha ispirato il nome di questo nuovo cerchio virtuale...
Ho imparato a conoscere il potere e la magia del cerchio un po’ alla volta, week-end dopo week-end. Mi sono stupita di quanto la condivisione fosse sincera, creativa e catartica all’interno del nostro cerchio e quando l’ho intuito ho lasciato fluire parole e sensazioni all’interno di esso... senza aspettative, ma ogni volta ho portato con me qualcosa di prezioso: un’idea, un proposito, protezione e conforto, una grande sensazione di sorellanza...
Il cerchio del Master della Scuola dei 1000 giorni si è chiuso lo scorso giugno, ma non senza la possibilità di riaprirsi ogniqualvolta un gruppo di noi partecipanti si è riunito per altri scopi.

In quest’ultimo periodo la mia famiglia ha vissuto una parabola molto delicata e io, che non ho avuto modo di condividerla all’interno del nostro cerchio, ho preferito non farlo in altro modo. Ora che si è conclusa, la condivido volentieri con voi all’interno di questo nuovo cerchio.
La settimana scorsa si è spento il papà di mio marito. E’ successo tutto con molta naturalezza, dopo una malattia che ha preparato lui e noi, la sua famiglia, al momento del trapasso. Gli ultimi due mesi sono stati molto particolari e mi hanno dato modo di riflettere sulla morte e, come sua antitesi, sulla nascita.
Nascita e morte sono due eventi strettamente legati tra loro: non c’è nascita che non si concluda con la morte e vice versa non c’è morte che non abbia avuto una nascita precedente.
Non ho potuto non chiedermi perché due eventi così strettamente legati sono considerati in modo così diverso: il primo celebrato, accolto con gioia e speranza; l’altro sempre più visto con dolore, rassegnazione, totale assenza di aspettative per il futuro, evento da dimenticare, da cancellare il prima possibile.
Forse perché ho vissuto altre esperienze di lutto nella mia vita, ma anche perché credo che ci sia ben altro oltre a quello che vediamo, tocchiamo e scientificamente studiamo, ho imparato a non vedere più la morte come un evento solo tragico, doloroso e ineluttabile.
Ma la morte di mio suocero mi ha portato una consapevolezza nuova: la mia accettazione della morte come evento che fa parte della vita arriva anche dalla mia recente esperienza di operatrice perinatale. Aver a che fare con la nascita, con la nascita intesa come evento grandioso, in cui la forza creatrice della natura si manifesta in tutta la sua potenza, che insieme alla nascita di una nuova creatura porta ad una nuova nascita della donna che la dà alla luce, dà la possibilità a chi vive o condivide questa esperienza di vedere con occhi nuovi molti aspetti della vita e, accanto ad essi, della morte.
Ma anche l’esperienza della nascita non è da tutti: sempre più frequentemente la nascita è vissuta come un evento medicalizzato, costellato da interventi che a vario titolo si prefiggono si salvaguardare la salute del nascituro e di sua madre, ma che, inevitabilmente, fanno perdere la magia, la spontaneità e la potenza dell’evento della nascita.

Non spetta a me dare una risposta, non ne ho i mezzi e nemmeno il titolo...
...però, pongo volentieri un interrogativo.
Non sarà che il progressivo rifiuto della morte e di ‘vivere’ pienamente questa esperienza sia in parte legato al fatto che sempre di meno sappiamo vivere il significato potente della nascita?


L'esperto è come l'edera

Mafalda

Nei gruppi di madri che gestisco, spesso vedo che quando una mamma si trova in alto mare, disorientata e confusa, snervata dall'assenza prolungata di sonno, incerta e irritata, cerca.... 
Cerca risposte, soluzioni, stratagemmi, consigli, ricette per far passare quel sentire, che le sembra non sia materno. È anche lei abituata a vedere dipinti e scatti fotografici di madri col volto sereno che amorevolmente tengono in braccio bambini tranquilli e che guardano l'eternità senza ombra di dubbi. Lei non tollera di essere insicura, perdere il controllo, aver bisogno costante in ogni cosa che fa, essere ripetutamente interrotta in quello che svolge. E' un senso di fallimento.

Ed ecco arriviamo noi, ci intrufoliamo rapidamente per offrire suggerimenti, dare ordini, insomma darle la soluzione che lei cerca. 

A che prezzo?
Lei perde la fiducia in se stessa, e noi l'avevamo già persa verso di lei. La mamma si sentirà incompetente e sarà come l'albero con l'edera, imparerà a convivere anche se l'edera le fa morire la linfa! Esagero penserete...

Ad esempio: il suo bambino non dorme o almeno, non quanto o come vorrebbe lei. E come forse lei avrebbe bisogno.
Noi di fronte a questo problema ci dividiamo in due accampamenti: da una parte c'è chi sostiene l'alto contatto e apparecchia alla madre tutta la teoria dell'attaccamento e dell'evoluzione del sonno e l'importanza dei risvegli per la sopravvivenza della specie umana!

Nell'altro accampamento c'è chi sostiene che lasciare piangere il bambino per educarlo al sonno non fa male, anzi fa risparmiare la salute psichica di tutta la famiglia (senza però fare i conti sulla sua!).

Insomma, diventiamo degli avvocati, o dalla parte del bambino o dalla parte della madre, e senza rendercene conto li dividiamo!
È di questo che ha bisogno una mamma?

Noi non possiamo conoscere, neanche dopo un attento ascolto, i dettagli della loro situazione, e di sicuro non saremo noi a vivere le conseguenze a lungo termine dettate dal nostro consiglio.
Chi di noi è madre e ha vissuto l'esperienza di sentirsi in alto mare, non ha forse avuto bisogno di sentirsi sufficientemente forte per navigare nelle proprie insicurezze e sentimenti di disorientamento?
Non siamo forse sopravissute, miracolosamente, a questo clima infestato da esperti?
Non stavamo forse lentamente cominciando a capire e a rispondere ai nostri bambini?
Forse si....forse no!


Per favore, ricordiamoci di non sostituirci alla madre. La condanniamo a credere che avrà sempre bisogno di qualcuno che le dica come fare la madre dei sui figli! Noi madri possiamo fare a meno di edere?

domenica 8 febbraio 2015

Ah....davvero?

Gianna Nannini


di Marzia Bisognin


Un pomeriggio che sono pigramente seduta davanti allo scorrere della bacheca di Facebook, un amico mi segnala un articolo che già dal titolo mi fa formicolare la schiena "Non sappiamo più diventare madri".  Apro il link e faccio un salto sulla sedia.  Cavolo, lo ha scritto Silvia Vegetti Finzi, tanto scemo non sarà. E invece lo è, davvero non mi capacito. Invito anche voi ad aprire il link, magari io ho preso un abbaglio.

Non sappiamo più diventare madri fa presupporre che ci sia stato un tempo in cui avevamo questa sapienza.  Ma quand'è esattamente che le donne sapevano diventare madri? Forse un secolo fa, quando eravamo una società rurale e povera e le donne erano dipendenti dagli uomini? All'epoca le madri avevano la vita dura, non so se sapevano diventare madri visto che  uno dei nomi che si usava dare in Romagna alle neonate era Antavleva (non ti volevo). Oppure quando si è consacrata la famigliola borghese, con la donna tutta dedita a lucidare i pavimenti dove poggiavano i piedi dei suoi cari? O quando le madri un po' strampalate venivano messe in manicomio? 
Quand'è questo mitico passato che dovremmo guardare come esempio? Dovremmo risalire al Neolitico? 
Insomma quando, qualcuno lo sa?

E che cosa significa saper diventare madre? Io avevo inteso che significasse aprire il proprio cuore e il proprio corpo, accettarne la vulnerabilità e le ombre, imparare a prendersi cura di un figlio senza commettere il peccato di considerarlo una propria proprietà privata.
Invece dovremmo rimpiangere il tempo in cui le bambine si stringevano al petto il bambolotto simil-bebè? Davvero quello serviva a diventare madri? Ma non avevamo detto che volevamo uscire dagli stereotipi di genere? Cosa mi sono persa?

Ah, ecco un chiarimento: "molti ginecologi dicono che le donne spesso fanno movimenti contrari all’efficienza dell’espulsione e del travaglio". 
Ah davvero, molti ginecologi dicono così? Allora Silvia, te lo spiego io. Molti ginecologi non hanno la minima idea di quali siano i movimenti fisiologici per un buon parto, e il fatto che abbiano usato l'orribile parola "espulsione" non fa che sottolinearlo. Ci hanno fracassato i nervi in anni e anni di "trattenga il respiro e spinga" alternato a "ma cosa fa, non deve mica trattenere il respiro!" oppure "stia ferma, faccia come le dico" su lettini concepiti per la comodità degli operatori anzichè per il buon andamento del parto. 
E no, non c'è bisogno di un'ostetrica che stia accanto al corpo della donna, ma di un'ostetrica che stia accanto alla donna. E' molto diverso. 

Le donne dovrebbero sapere tutto di gravidanza e parto? 
Correva l'anno 1949, mia madre rimase incinta senza nemmeno sapere come si rimaneva incinte, e quando infine partorì, la suocera tenne la lampada in mano per far luce all'ostetrica, ma sempre con una mano sugli occhi per non vedere quella vergogna spalancata davanti.......se questo è saper tutto della gravidanza e del parto.....! 
Vabbè, per un po' ho pensato che la mia famiglia fosse particolarmente di strette vedute, ma poi mi sono presa la briga di approfondire l'argomento e ho capito che non è che le donne sapessero proprio tutto di gravidanza e parto, di sicuro non al primo figlio. Io stessa da adolescente non sapevo di avere una clitoride e una vagina.

Penso che in questi ultimi quarant'anni le donne abbiano fatto enormi passi avanti in tanti ambiti, uno dei quali è il rapporto con il proprio corpo. Noi e il nostro corpo era il titolo del libro scritto da un collettivo femminista di Boston, pubblicato in Italia nel 1974. Leggendolo, in tante impararono ad ascoltarsi, a sentire il corpo dall’interno dopo averlo studiato nei primi manuali di educazione sessuale. Impararono a parlarne a voce alta e rivendicarono il diritto ad avere un corpo. Cercarono di sottrarsi ai ruoli imposti, e anche nel rapporto con gli uomini qualcosa di sostanziale iniziò a cambiare. 
Le bambine e i bambini nati in quegli anni hanno in un certo senso ereditato i risultati di quell'esperienza, e il rapporto di vicinanza corporea che tanti giovani padri hanno con i neonati ne è forse il segno più forte e più bello.

Certo, non è stato un percorso lineare. Certo, la modernità ha stravolto l'immagine interiore che abbiamo del nostro corpo. Certo, questa modernità ci allontana dall'esperienza corporea. Certo, oggi nascono pochi bambini e spesso si diventa madri senza mai avere visto da vicino un neonato. Ma se oggi possiamo desiderare che la gravidanza non sia svuotata del suo contenuto psichico, emozionale e spirituale, è perchè abbiamo scoperto che quel contenuto esiste. Se ci interroghiamo sull'importanza del modo in cui si nasce e di come si viene accolti in questo mondo, è perchè abbiamo maturato qualcosa.

Sì, serve ripensare all'educazione. Ma più che a un'educazione alla maternità penserei a un'educazione alla corporeità, all'affettività, all'ascolto.
Sì, dovremmo saperci prendere cura di chi nasce e di chi mette al mondo. Dovremmo saper costruire lo spazio per proteggere quei primi irripetibili momenti. Però accidenti....che sentenza dire che senza questo riconoscimento noi non siamo niente......
Ma proprio niente?







sabato 7 febbraio 2015

Non mi basta

Jean Michel Folon


di Marina Testi

Da 4 anni a questa parte, con la nascita di Penelope, sono entrata a far parte di una vera e propria categoria sociale: la mamma. Mi sento ora autorizzata ad essere anche inoccupata professionalmente, tanto sono comunque una mamma che si prende cura dei suoi cuccioli, per giunta piccoli e vicini d'età. E se qualche volta sono al bar a prendere un cappuccino con la brioches sono giustificata: ho pur bisogno di qualche svago "mondano" se sto tutto il tempo con i miei bambini. 
Ma tutto ciò non mi soddisfa, a parte il cappuccino con la brioches! Ho preso consapevolezza - dopo quattro anni - che lo status di mamma mi sta dando una nuova visione del mondo e di me stessa. Non mi basta prendermi cura dei miei cuccioli, non mi basta prendermi qualche svago mondano. Voglio essere di nuovo attiva professionalmente, portare il mio contributo di idee e di dedizione, arricchito proprio da questa nuova veste di mamma. 

Mi sto cibando di libri e di letture che valorizzano la condizione di mamma. Vi consiglio "La maternità è un master" di Andrea Vitullo e Riccarda Zezza e "Il cervello delle mamme" di Katherine Ellison. Entrambi i libri dimostrano come la genitorialità sia un valore aggiunto per la società e per il mondo del lavoro. Entrambi i testi combattono l'idea di maternità come un qualcosa di privato e da chiudere tra le mura domestiche o al massimo tra le mura di una scuola. 

venerdì 6 febbraio 2015

Un modo di stare

foto  Hillerbrand + Magsamen

Il cerchio è una bella metafora, forse adusa. Se è un modo di stare, è una geometria ricca di senso oltre che di bellezza.
Prima di ogni cosa, come ci ricordava Marzia, va pensato e preparato. Richiede un ridefinizione dello spazio. Nel cerchio si deve stare comode. Se lo facciamo a terra meglio. Stare sedute a terra costringe a confrontarsi con il corpo e i suoi bisogni, a nutrire la comodità della schiena, e ci abitua a riacquisire il contatto con il pavimento.

Il cerchio presuppone una modalità di pari, in cui ciascuna porta il suo pezzo, dona la sua storia, raccoglie quella delle altre. Il cerchio allena in ognuno la capacità di ascolto; insegna ad esprimere le opinioni nella sintesi. Il cerchio è concreto: tutte queste cose le dice senza parlare