Blog di Marzia Bisognin, presidente del Melograno di Bologna. Ci occupiamo di accompagnare la maternità e la genitorialità con cura. Con corsi preparto, incontri a tema e spazi dedicati, ci impegniamo a fornire un ambiente accogliente e inclusivo per le famiglie, aiutandole ad affrontare il percorso della nascita e della crescita in modo consapevole e rispettoso
mercoledì 10 dicembre 2014
Il gorgo di Loris
E' stato impossibile sottrarsi al gorgo della vicenda di Loris e della sua mamma.
Mi chiedo perchè quando una donna uccide il proprio figlio usiamo le parole inconcepibile e contronatura, e lo sgomento ci induce a tacere. Uso il plurale maiestatis, perchè mi sento in buona compagnia. Non abbiamo parole, spiegazioni, accuse, non abbiamo certezze a cui aggrapparci. L'unica àncora è la parola depressione, quel mostro nero che ogni madre ha la possibilità di intuire, anche chi ne è stata sempre lontana. Di fronte a una donna che uccide la sua creatura, se non ci facciamo prendere da un rassicurante "come ha potuto fare una cosa così? Che madre è....? A me non potrebbe mai succedere", proviamo una dolorosa pietà, disarmate al pensiero del gorgo scuro che rende intollerabile un pianto in più, una richiesta in più, un'incombenza in più, disarmate al pensiero di quella profonda solitudine. Io ho sfiorato quell'abisso, ne ho odorato il terribile fiato.
Quando invece è un uomo a commettere lo stesso gesto, non abbiamo la stessa pietà. Più precisamente io non ho la stessa pietà, e so di sbagliare. A giudicare dai commenti in rete è una cosa piuttosto diffusa, almeno tra le mie cerchie. In quegli omicidi ci vedo la maschia attitudine al sopruso verso il più debole, ci vedo il senso di possesso, l'immaturità, la brutalità, il non distinguere tra compagna e figli (eh già, questo va detto: l'uomo che uccide i figli in genere fa piazza pulita. Moglie e figli). Ma inconcepibile e contronatura sono termini riservati alle donne che uccidono i figli, non agli uomini, che anzi in qualche modo sembra che cedano alla loro barbarie naturale. Ma un dato è incontestabile: in entrambi i casi ci si accanisce su un soggetto debole, un bambino, che non può che soccombere alla nostra forza di adulti. In entrambi i casi insomma si cede a qualcosa di selvaggiamente animale....eh sì, gli animali possono uccidere i figli. Anche questa è natura.
Tutte le madri che hanno ucciso i propri figli parlano di amore. Di quanto li amavano profondamente, visceralmente, teneramente, e non ho ragione di dubitarne. Ma l'amore da solo non basta, e l'amore non è sempre solo buono.
Mamme non si nasce, e tantomeno si nasce papà. Ed è difficile, e ci vuole il sostegno di tutti per imparare questo difficile e straordinario amore che ci carica di responsabilità, che ci mette di fronte a noi stessi come nient'altro, questo difficile amore che davvero è per sempre.
Ma soprattutto ci vuole il sostegno di tutti per imparare che i figli non sono una nostra proprietà, non sono un pezzo di noi. I figli sono esseri che noi accogliamo, non ci appartengono. Ci vuole il sostegno di tutti per sentire questo compito condiviso.
E mi chiedo: questa difficile accettazione che i figli sono altro da noi, c'entra qualcosa con la pressochè assenza di casi di uccisioni di figli adottivi....?
lunedì 24 novembre 2014
Evviva i NAS
i pediatri in questione
di Marzia Bisognin
Insomma, servirà a instillare qualche dubbio?
Basterà l'arresto di 12 pediatri, di cui due primari, per prendere con le molle le varie "signora lei non ha abbastanza latte, il suo latte è poco nutriente, il suo bambino non cresce abbastanza, diamogli l'aggiunta, non si intestardisca con l'allattamento, non metta a repentaglio la salute di suo figlio, non vede che non ha latte?"....?
Servirà a qualcosa? Probabilmente sì, a qualcosa servirà, ma a cosa?
Potrebbe servire a esercitare la nobile arte del dubbio, che al non prendere le parole degli "esperti" come oro colato affianca la fiducia nelle proprie capacità e la ricerca di un proprio punto di vista attraverso la conoscenza di altri punti di vista. E questo sarebbe un ottimo risultato.
Potrebbe servire a scalzare l'idea che allattamento al seno o con latte di formula sono equivalenti, che uno vale l'altro. Potrebbe servire a promuovere l'idea che l'allattamento al seno è la norma biologica. Che il latte la mamma ce l'ha, è suo e del suo bambino, e che spezzare questa catena intenzionalmente, per scopi personali, è grave. Tanto grave che si può essere arrestati. E questo sarebbe un ottimo risultato.
Potrebbe servire a diffondere ulteriormente una totale sfiducia nella classe medica, perchè "tanto sono tutti uguali", idea già molto radicata in certi ambienti. E questo sarebbe invece un pessimo risultato.
Si è sempre saputo che tanti pediatri spingono alla grande sul latte di formula. Che lo facciano per un viaggio a Berlino in hotel di lusso o uno smartphone è però tragicamente avvilente.
Dobbiamo augurarci che i tanti medici che lavorano con coscienza, quelli per cui il giuramento di Ippocrate non è una formula vuota, si impegnino a smascherare i colleghi, a non coprirli con omertà di categoria, o con il lasciar correre "perchè tanto è sempre successo". Questo sì che sarebbe un grande risultato.
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venerdì 27 giugno 2014
Consiglio di lettura
di Marzia Bisognin
"Sì, sai, quel genere di donne che sono per il parto in casa. Pace, amore e tinte forti. Medicina alternativa. Viva il baratto perchè sono al verde. Non posso pagarti, ma mio marito è un falegname e ti costruirà la libreria più bella che tu abbia mai visto se mi aiuti a partorire"
Cosa posso dire di un libro che ho divorato in due giorni?
Una storia scritta come un giallo, ambientata in un mondo e un modo di pensare e guardare le cose che conosco a menadito e che mi appartiene, anche se nel Vermont non ci sono mai andata. Raccontata dalla voce narrante di un'adolescente, figlia di una levatrice solare e coraggiosa. Narra di nascite meravigliose, di vocazione, di amore.
Ma.
Ma. Ma una notte terribile cambia la vita a molte persone.
No, non è un libro peace&love. E' piuttosto un libro sul senso di responsabilità, sulla difficoltà delle scelte, sulla colpa, sull'innocenza, sull'etica
domenica 8 giugno 2014
Incontri in bus
![]() |
Fernando Botero, la Gioconda |
Salgo sull'autobus accaldata e conquisto un seggiolino libero. Di fronte a me è seduta una pingue giovane donna, capelli corvini e occhi truccati di turchese e arancione. Fa un commento sulle terrine di plastica colorate che ho appena comprato, e dalle terrine alla nascita del figlio il passo è così breve che non so ricostruirne i passaggi.
Io volevo fare l'induzione. Ho detto a mio marito "portami giù in Puglia - perchè noi siamo pugliesi - portami giù che voglio fare l'induzione. Volevo fare l'induzione perchè volevo che nascesse capricorno, come il figlio di Lady Diana, sai la principessa buona? E allora volevo fare l'induzione. Ma poi mio marito non mi ha portato. E allora una sera avevo fatto l'amore e dopo avevo mal di pancia, e poi mi sentivo tutta bagnata, dappertutto, così sono andata al S.Orsola e mi hanno sgridato perchè avevo fatto l'amore. E avevo un gran male, un gran male, un gran male.... e poi mi hanno detto "Signora questo è suo figlio" e me lo hanno fatto vedere. Mia sorella invece ha fatto l'induzione, ma non perchè voleva che il figlio nasceva capricorno.
Poi tira fuori dalla borsa un piccolo album consunto, e mi mostra la foto del figlio a pochi mesi di vita, poi a cinque anni, e infine adesso: un ragazzo di 27 anni.
Sono arrivata, la saluto e scendo.
Tempo totale: tre fermate di autobus.
Ma ce l'ho scritto in faccia....??
lunedì 2 giugno 2014
Catastrofi naturali
Da alcune settimane i
Balcani sono stati devastati da un’alluvione apocalittica.
Amo quei paesi e ci penso
ogni giorno. In particolare a neonati e madri con figli piccoli, o partorienti, in
villaggi che per giorni sono rimasti isolati, tuttora immersi nel fango e nelle
macerie, senza accesso ad acqua potabile.
La zona alluvionata è
molto estesa: Bosnia, Serbia e Croazia. Un milione e mezzo le persone colpite,
trentamila sfollati, 77 morti accertati.
Interi paesi sono stati sommersi, infrastrutture gravemente danneggiate, migliaia di frane e smottamenti, case crollate. Agricoltura distrutta, paesi ancora isolati e senza acqua potabile, migliaia di animali morti. Un grave problema è lo spostamento delle mine: non tutto il territorio era stato bonificato dopo la guerra degli anni 90 e tante aree erano tuttora recintate e segnalate. L'alluvione ha smosso gli ordigni inesplosi.
Interi paesi sono stati sommersi, infrastrutture gravemente danneggiate, migliaia di frane e smottamenti, case crollate. Agricoltura distrutta, paesi ancora isolati e senza acqua potabile, migliaia di animali morti. Un grave problema è lo spostamento delle mine: non tutto il territorio era stato bonificato dopo la guerra degli anni 90 e tante aree erano tuttora recintate e segnalate. L'alluvione ha smosso gli ordigni inesplosi.
Non starò qui a
cercare di capire perché in Italia se ne parla così poco, ma comunque è così. Ci
sono diverse associazioni serie che stanno raccogliendo denaro.
Io segnalo queste due, perchè le conosco bene e perchè da anni lavorano sul
territorio. Grazie a tutti!
http://www.oxfamitalia.org/dal-mondo/emergenza-alluvioni-in-bosnia-oxfam-raggiunge-le-zone-colpite
http://www.alexanderlanger.org/it
http://www.oxfamitalia.org/dal-mondo/emergenza-alluvioni-in-bosnia-oxfam-raggiunge-le-zone-colpite
http://www.alexanderlanger.org/it
giovedì 24 aprile 2014
Storie di guerra
Il violinista verde - Marc Chagall
Ogni anno, quando si avvicina il 25 aprile, ci penso.
Una donna in pieno travaglio in tempo di guerra, in un paese dell'Appennino occupato dall'esercito tedesco, arriva a un posto di blocco. Lei ha un pancione enorme e le sue doglie sono evidenti, probabilmente ha paura. Il soldato tedesco è molto giovane, si emoziona di fronte a questa boccata di vita e decide di scortarla affinchè arrivi all'ospedale sicura e indisturbata. Ha con sè un violino e per tutto il tragitto accompagna il travaglio della donna suonando l'Ave Maria di Schubert.
E' nata una bambina, che da grande è diventata la mamma di un ragazzo che mi è molto caro, e ha sempre raccontato questa piccola e meravigliosa storia della sua nascita. Poi ha avuto un brutto incidente ed è morta prematuramente. Al funerale il figlio ha raccontato questo episodio sulla sua nascita, e ha scelto l'Ave Maria come colonna sonora del suo ultimo viaggio.
martedì 15 aprile 2014
Scambio di embrioni
Ibu Robin Lim & family
Scambio
di embrioni in un ospedale romano. Forse sono coinvolte due coppie, forse
invece sono coinvolte molte coppie. Panico, choc, angoscia, disperazione.
Queste sono le parole che rimbalzano negli articoli che raccontano la vicenda.
Una
fecondazione eterologa non per scelta: sembra fatto apposta, in questo momento.
Invece sono state coinvolte persone inconsapevoli, a causa di un errore umano o forse a causa di vera
cialtroneria diffusa.
Capisco,
capisco ognuna delle parole drammatiche che vengono usate per narrare la
vicenda. Eppure non riesco a non pensare
a questa storia con un sorriso, non riesco a non pensare alle imprevedibili
strade che prende la vita, agli sberleffi del destino, se vogliamo chiamarlo destino, a quanto l’inizio della vita
possa essere davvero speciale, direi persino leggendario.
La
scienza della genetica e le tecnologie biomediche ogni giorno ci aprono conoscenze nuove e
possibilità impensabili fino a pochi anni fa, e siamo molto lontani dal vecchio
mater semper certa est, pater nunquam.
La modernità ci costringe a ripensare il concetto di madre e di quello di
padre, così come del resto ci costringe a ripensare al concetto di natura e di cultura.
I figli non ci appartengono, come non ci
appartengono le persone che amiamo, ma certamente appartengono a noi tutti, come
comunità. Cogliamo questa vicenda come un’occasione per pensare, senza rimpiangere il passato e possibilmente non ascoltando cardinali oscurantisti e rasponi..... in fondo anche Giuseppe fu padre di un figlio non biologicamente suo. E che padre!
venerdì 7 marzo 2014
Maternità e femminismo
Danae, di Auguste Rodin
(articolo pubblicato sul numero Benvenuto tra noi, rivista Gli Asini, n. 12-13 ottobre 2012 gennaio 2013)
di Marzia Bisognin
Ho letto alcuni giorni fa su Facebook il post di una giovane donna che più o meno diceva così: le madri scelgono sempre la qualità, è la loro natura, e il femminismo anni Settanta ha perso.
Ho vissuto quella memorabile
stagione, pur se come una sorellina minore che si è trovata il solco già aperto
davanti. Ricordo con tenerezza quando passavamo i pomeriggi, armate di
speculum, pila e specchio, a scoprire l'aspetto dei nostri genitali e come
eravamo fatte dentro
Ricordo bene il tentativo di
rintracciare e incarnare in noi stesse
quel noi e il nostro corpo che era il titolo del famoso libro
scritto da un collettivo femminista di Boston, pubblicato in Italia nel 1974.
Imparammo ad ascoltarci, a sentire il corpo dall’interno, dopo averlo studiato
nei primi manuali di educazione sessuale.
Spaccammo il capello in
quattro nei collettivi di autocoscienza, e come bulldozer emozionali mettemmo a
soqquadro tutto quello che la società, o semplicemente le nostre mamme, si
aspettavano da noi. Coltivammo con passione le relazioni tra donne.
Ancora in quegli anni,
gli abiti premaman erano pensati per mascherare l’indecorosa pancia, la parola
“parto” era considerata sconcia, a “incinta” si preferiva “stato
interessante”. Non c'erano molti modi
per affrontare gravidanza, parto e allattamento. Gli esseri umani crescevano
nel mistero del ventre materno in seguito a un rapporto sessuale, dirompevano
nel mondo facendosi strada nella carne dolorante, tra umori corporali che si
preferiva non nominare. Punto.
Se eri incinta ti sposavi, salvo poche eccezioni, il sistema patriarcale e
sessista era forte e robusto.
Il movimento delle donne
degli anni Settanta disertò dalla maternità. Se ne possono capire molto bene le
ragioni, il dominio sul corpo femminile era potente, e il fascismo non era poi
così lontano dalla memoria, con il suo culto della madre rurale, prolifica e
sacrificale. Scendere in battaglia per liberarsi di quel modello richiedeva
armi efficaci, mica belle parole. Occorreva che la battaglia entrasse nella
vita quotidiana, dentro alle case, dentro alle relazioni familiari e a quelle
sentimentali, fin dentro il proprio corpo.
Cosa poteva essere più sovversivo che rifiutare la maternità? Se la
natura ci aveva reso schiave, la cultura ci avrebbe reso libere.
Non che fosse la prima volta che le donne irrompevano sulla scena pubblica, la
parola “femminismo” aveva anzi quasi un secolo di vita, ma le battaglie erano
state quelle del diritto al voto, dell’accesso all’educazione superiore e alle
libere professioni, della gestione di eredità e
proprietà. Il movimento
femminista degli anni Settanta ha prodotto invece una narrazione degli aspetti
più privati dell’universo femminile, ha dato dignità a temi scabrosi come
mestruazioni, masturbazione, orgasmo. Ha dato centralità politica
all'esperienza personale, ha introdotto nuove parole, che fecero virare il
linguaggio politico verso quel il privato è politico che diventò il
simbolo di un'epoca.
Fu solo per ragioni
strategiche che la maternità restò sostanzialmente esclusa dal discorso
femminista? Perché non riuscì a trovare parole e prospettive nuove? Forse
quella cultura che si traduceva in un
continuo interrogarsi, nell'andare a scavare dentro di sé fin dentro le più
oscure radici, quell'abbattere ogni consuetudine bruciandosi tutto alle spalle,
era un patrimonio troppo fragile da gestire?
La maternità è densa di
contraddizioni intrinseche. L'atavica paura del bambino mostro, la paura di
covare colui che ti sarà nemico, o colui che non sarai capace di accogliere,
sono paure che fanno parte del gioco. Forse affrontare queste ambivalenze
avrebbe indebolito la lotta?
Non lo so, quello che so è
che la maternità restò una patata bollente. Rimase esclusa come fosse una
scelta involuta e regressiva, di cui valeva la pena occuparsi solo per
liberarsene o per trovare formule di conciliazione con il resto della vita:
asili Nido per per avere accesso al mondo del lavoro, anticoncezionali e
diritto all'aborto per una libera autodeterminazione, biberon per non essere
relegate nel privato e nel ruolo di addetta all'accudimento. Il movimento
femminista non rivendicò e non riconobbe la gravidanza e il parto come
esperienze formative, di crescita personale, di scoperta di sé. Di
quel sé di cui invece si faceva un gran
discutere. Il pensiero critico, se così vogliamo chiamarlo, si arenò davanti a
questa soglia. Le poche che si occuparono di maternità analizzarono
principalmente la relazione con la propria madre, come fossimo
destinate a restare sempre e solo figlie.
Così, abbandonata a sé
stessa, la maternità rimase sguarnita di pensieri, idee, discussioni, quasi che
abitasse una dimensione parallela. Quasi che, nel momento dell’inizio della
gravidanza, si salisse su un altro treno. Fin dal momento così denso di
sentimenti ambivalenti in cui una donna si rende conto di essere incinta.
Ci furono sparuti
gruppi di donne che, spesso per ragioni biografiche, fecero di gravidanza e
parto il cuore del loro attivismo. Fu un piccolo movimento di nicchia per l'autogestione della salute, della gravidanza e del
parto. Ne sono stata testimone e protagonista. Scoprimmo anche la figura
dell’ostetrica, e che la nascita di un bambino è un evento nel quale due donne
agiscono insieme. Scoprimmo l’importanza della relazione empatica e direi quasi
affettiva fra le due.
Tra i pochi libri militanti
che si occupavano di nascita, uno su tutti: Riprendiamoci
il parto, pubblicato in Italia nel 1977 da Savelli. Raccontava l’esperienza
di un gruppo di femministe americane agli inizi degli anni Settanta,
arrestate in massa dalla polizia californiana per pratica medica
illegale. Un libro fatto di testimonianze dirette, illustrato da tante foto,
che mostrava per la prima volta donne che partorivano al di fuori dell'ambiente
ospedaliero, su un materasso steso a terra nella propria casa, circondate da
amiche, compagno, bambini, con il neonato in braccio appena uscito, ancora
umidiccio.
Per molte di noi, quel libro
fu un inizio.
Il femminismo mise alla
berlina la famiglia tradizionale, la coppia come migliore cornice del viver
felice. Oggi invece, nonostante le statistiche ci parlino di una società sempre
più eterogenea, la famiglia sembra essere tornata in auge come unica, adeguata cornice in cui far nascere un
bambino. Per rendersene conto basta
leggere un manuale per futuri genitori, la home page di un sito che proponga corsi pre-parto, qualsiasi
dépliant che parli di maternità e di nascita. Sembra che l'unico modo legittimo
per fare un figlio sia programmarlo facendo un buon uso degli anticoncezionali,
farlo nascere all'interno di una coppia pronta a saltare a piè pari dall'essere
una coppia erotica al diventare famiglia, seguire uno stile di vita sano per
nove mesi, attendere il lieto evento serene e rilassate, e infine accogliere il
bambino con gioia. Tutto è al plurale, come se la specificità femminile nel
percorso fosse sempre più sbiadita, indistinguibile da quella maschile. I corsi
pre-parto sono rivolti alle coppie, e il massimo della mistificazione l'ho
trovato in una testimonianza che si concludeva con “alla fine abbiamo deciso
di abortire”. Quello che accade nel corpo della donna è diventato
patrimonio della coppia. Era naturalmente auspicabile che gli uomini si
sentissero coinvolti in prima persona, dal concepimento fino a trovare un nuovo
modo di essere padri, e il fatto che sia successo è una gran bella conquista
per tutti. Però è un'evidente manipolazione della realtà che il corpo della
donna non sia più solo il suo, bensì sia
patrimonio della coppia, oggetto di pianificazione familiare. Certo ne è
passata di acqua sotto i ponti, dal il corpo è mio e lo gestisco io del
femminismo anni Settanta.
La società in cui viviamo è
più complessa di come ce la raccontano i manuali, i bambini nascono in tanti
contesti diversi e soprattutto potere scegliere di essere madre non garantisce,
come si era creduto all'inizio, una maternità migliore. Non solo perché la
libertà di scelta è forse un'illusione, ma perché appesantisce il peso delle
responsabilità: più si è libere di scegliere, più si hanno responsabilità e
doveri. Niente può fare presagire cosa sarà quel tempo speciale che è l'attesa
di un figlio. Si diventa qualcosa che prima non si conosceva, ed è
un'esperienza potente, che può essere esaltante ma anche destabilizzante e
angosciosa. Alla buona madre contemporanea non è concessa l'ignoranza, la
distrazione, l'ambivalenza e tanto meno l'infelicità.
“Quando i figli non sono
pensati, la donna non riesce a vivere la cosiddetta gestazione psichica
necessaria come quella biologica per prepararsi alla nascita”, questa la
lapidaria sentenza di un'esperta a proposito dei cosiddetti figli dell’errore,
ovvero quelli che nascono non programmati.
Oggi gravidanza,
parto e puerperio sono abitate da due principali scuole di pensiero, che si
fronteggiano e si spingono fin nel territorio dei primi passi dell'infante.
C'è il naturismo
estremo, che rivaluta l'istinto materno e la dedizione totale al figlio. Per
realizzare la sua autentica natura, la donna non ha che da diventare madre. Nel
bel tempo che fu, le partorienti erano libere dagli artigli dei medici e,
circondate dall'amore femminile delle comari, davano alla luce neonati rosei e
sani, senza lamenti. Si arriva fino alla declinazione contemporanea del tremate
tremate le streghe son tornate di antica memoria: i cerchi di donne
che, ebbre di luce lunare, invocano la
Dea Madre. Si rivalutano i pannolini lavabili, indispensabili per salvare il
pianeta, e si auspica un allattamento prolungato, fino alle soglie delle
elementari. Come se tutto ciò che era, fosse migliore di ciò che è.
Numi tutelari di
questa visione, vengono elette le donne che appartengono a culture
tradizionali, agricole, basate su economie di sussistenza: eritree, indiane,
indonesiane, pakistane. Ovvero le stesse donne che incontriamo ogni giorno
nelle strade delle nostre città e con cui condividiamo i reparti maternità
degli ospedali. Solo che loro si stanno
emancipando dall'agricoltura di sussistenza e spesso aborrono allattamento al seno e parto a
domicilio, in quanto simboli di miseria e arretratezza. Per una ragazza che viene
da un paese avanzato come l'Olanda, al
contrario, sono pratiche consuete e auspicabili, simboli di una società del
benessere.
Sul fronte opposto del
naturismo, l'emancipazione e la
modernità coincidono con l'affrancamento dalla schiavitù del corpo che ci
offre la scienza medica. Il parto
fisiologico e l'allattamento al seno sono pratiche arcaiche e quanto più sapremo sfruttare le nuove
tecnologie, tanto più saremo protette dai rischi e libere. Come se tutto ciò
che è, fosse migliore di ciò che era.
L’utero
artificiale attualmente può sembrare fantascienza, ma certamente è solo un
problema di tempi tecnici, poiché l'utilizzo della surrogacy ha già
rotto l'indissolubilità del corpo materno con il figlio. Oggi è possibile
cercare su internet un'agenzia di maternità surrogata, acquistare un ovulo da
una donatrice, il quale verrà fecondato in vitro e infine impiantato nell'utero
di un'altra donna. Quest'ultima quindi è solo l'incubatore di un essere con cui
non condivide neppure una minuscola elichetta del suo DNA. Arrivare all'utero artificiale, come quello
di Matrix, è dunque solo questione di tempo. Potrebbe inorridirci l'idea,
eppure non ci inorridiscono gli articoli sui giornali che quasi ogni giorno ci
dicono che tutto penetra la placenta e danneggia il nascituro. Lo stress
materno, un drink per aperitivo o uno qualunque di quegli incidenti di cui la
vita è costellata: se il compito della gestante è creare un ambiente perfetto
come un laboratorio, se la vita stessa sembra poterlo contaminare, un utero
artificiale non sarà che la logica conseguenza.
Non penso che la
radicalizzazione ideologica sia causata dalla mancata presenza del pensiero
femminista sulla scena della maternità, almeno non principalmente. Penso
piuttosto che i cambiamenti degli ultimi cinquant'anni anni non siano ancora
stati metabolizzati. La possibilità di pianificare la gravidanza con l'uso
della pillola, di seguire gli sviluppi del feto durante la gestazione con
l'ecografia, di concepire con la fecondazione in vitro, di far crescere un
figlio nella pancia di un'altra, hanno prodotto profonde trasformazioni ancora
in fase digestiva.
La percezione
stessa del corpo oggi nemmeno assomiglia a quella delle nostre progenitrici. Un
tempo non lontano era una faccenda di sensazioni, di flusso sanguigno, di
ristagno di liquidi, e questa percezione informava tutto l’immaginario. Oggi è
diventata una faccenda di analisi, di ovociti, di morfologia degli organi, di
patrimonio genetico. Un tempo non lontano quello che accadeva nel ventre materno
era un mistero che si svelava solo nel momento della nascita. Oggi il feto è
una realtà sociale fin dai primi mesi di gestazione, e si mettono sui social
network le immagini ecografiche che lo immortalano mentre si ciuccia il dito.
La gravidanza è una
condizione esistenziale della donna, la quale non è più quella di prima e non è
ancora quella che sarà dopo, sono mesi di formazione interiore. Oggi però la
donna incinta è sempre più indotta a percepirsi come l’ambiente in cui cresce
il suo bambino, ben distinta da lui, e i suoi doveri primari sono quelli di
preservare l'illibata purezza di questo ambiente con una vita sana e fare
continue indagini cliniche per scongiurare ogni rischio.
Ma la nostra
psiche e il nostro immaginario hanno assorbito, metabolizzato, questi
mutamenti? Siamo davvero riuscite a tenere il passo con i tempi? Oppure il
disagio e lo smarrimento delle madri del giorno d’oggi ha a che fare con tutto
questo?
Nel mondo in cui
viviamo, occorre ridefinire che cosa è la natura, che cosa è la cultura, che
cosa è la tecnica. Senza arroccarsi su concetti
prêt-à-porter. Si può diventare madri, oggi più di ieri, in tanti modi
diversi. Ci sono maggiori opportunità, maggiore conoscenza, maggiore benessere,
maggiore libertà. Allo stesso tempo ci sono competenze che si perdono, problemi etici che si pongono alla nostra
coscienza, smarrimenti sconosciuti, profonde solitudini.
Quello di cui si
sente la mancanza è un pensiero critico, spregiudicato, che vada oltre l'estremismo ideologico che si è sviluppato
sulla maternità, che affronti i vagabondaggi interiori delle madri, i temi
della libertà di scelta e delle nuove tecnologie. Un pensiero che sappia
articolare la complessità contemporanea. Che cosa significa, nel panorama
attuale, essere libere di scegliere? E che cosa significa, in senso più ampio,
essere madri consapevoli e donne libere?
Un punto di vista
femminista? Forse lo si può chiamare così, se con questa parola definiamo quel
pensiero che si interroga sulla dignità e la libertà delle donne.
giovedì 6 marzo 2014
Ti ricordi Shantala?
Ho imparato a massaggiare i miei figli quando erano poco più che neonati da una donna che non ho mai conosciuto personalmente. Non ho mai sentito la sua voce, nè ho mai visto il colore della sua pelle e dei suoi capelli, perchè l'ho sempre vista solo in bianco e nero.
Il libro ce l'ho ancora, ingiallito dai quasi quarant'anni di vita. In copertina la faccia di una giovane donna indiana sorridente, la grossa treccia appoggiata alla spalla sinistra: lei, Shantala.
Guardando le fotografie scattate a Calcutta da Frederick Leboyer, ho appreso l'arte di nutrire i piccoli con il tocco delle mani. Shantala è immortalata seduta a terra, con le mani lucide di olio tiepido che massaggiano ritmicamente il corpo del bambino nudo, appoggiato alle sue gambe distese. Lo guarda, lo accarezza, lo impasta, lo distende, con gesti vigorosi e sensibili.
Bevevo quelle immagini e ripetevo i gesti, modulandoli a quella che ero io, giovane sgarrupata bolognese ubriaca di prolattina, mentre lei era una giovane donna di un'India lontana e poverissima. La guardavo e facevo miei quei movimenti, quel modo di osservare e sentire i cuccioli della mia specie.
Dopo, molto dopo, è arrivata Vimala McClure e il massaggio infantile diffuso dall' AIMI, quello che tutti oggi conoscono. Ma io, come molte altre della mia generazione, ho imparato da Shantala, in anni in cui la puericultura corrente si concentrava solo sull'igiene, i controlli e gli orari da rispettare.
Sarebbe bello poterla ringraziare, chissà se lei lo sa quanto ha significato per noi....
domenica 16 febbraio 2014
Vorrei
Opera esposta a Arte Fiera 2013
Medicalizzazione è un termine che viene usato
perlopiù in senso negativo, intendendo un processo di sconfinamento da parte
della medicina, che travalica suoi limiti. Dal dizionario on-line Treccani: medicalizzare, attribuire carattere medico, far
rientrare nella sfera della medicina eventi e manifestazioni ritenuti d’altra
natura, per esempio sociale o psichica.
Oggi la terminologia medica pervade il linguaggio e la
diagnosi ha il sopravvento sulla persona. Le donne che fanno un figlio si ritrovano impregnate
di parole sanitarie e messe sotto osservazione stretta, lo sappiamo e ce lo
ripetiamo fino alla nausea. E qui sgombro
subito il campo da ogni possibile equivoco: non vorrei tornare indietro. La
medicina ha fatto enormi progressi, anche in campo ostetrico, e non solo salva
più vite di quanto potesse fare in passato, ma è in grado anche di migliorare
la qualità della vita e regalare maggiore libertà.
Dunque no, non vorrei tornare indietro, però vorrei
andare avanti.
Vorrei che la gravidanza non fosse svuotata del suo
contenuto psichico, emozionale e spirituale.
Vorrei che fosse narrata da parole
che anche i bambini possano comprendere, parole che appartengano all’universo
della fantasia, della poesia, della convivialità, delle emozioni.
Vorrei che l’addomesticamento a cui assistiamo
lasciasse il posto all’eccentrico e alla creatività.
Vorrei che le donne soffiassero sulle braci ardenti.
Vorrei che quel grande viaggio che è l’accoglienza
di una nuova vita fosse caratterizzato dal desiderio di bellezza e dall’espansione.
Vorrei che sicurezza non facesse rima con
inibizione.
Vorrei che salute facesse rima con piacere.
Vorrei che andare avanti significasse anche tutto questo.
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giovedì 13 febbraio 2014
Questioni di linguaggio
Paul Klee, 1918
Si discute sulle parole.
E' meglio dire che "la doula aiuta a contenere il dolore con un tocco rassicurante dove la donna desidera, suggerendo visualizzazioni e rilassamento, sostenendola nell’assumere posizioni comode a lei più gradite" oppure è meglio non usare la parola comoda, perchè la "posizione giusta è funzionale, fisiologicamente allineata con la struttura della madre, la fase del travaglio e la presentazione del bambina"...?
E' meglio aggiungere al blando "suggerire visualizzazioni e rilassamento" un più forte "appresi dalla madre nei corsi di psicoprofilassi al parto da lei seguiti"....?
E' meglio parlare, riguardo al puerperio, di un morbido "aiuto per un buon avvio della relazione con il bambino", oppure è meglio usare la parola bonding?
Sono questioni di lana caprina o piuttosto sono questioni sostanziali?
Per conto mio si tratta di lana caprina, cavilli, ma voglio spaccare il pelo della capra in quattro e precisare che per conto mio:
- la parola comoda è bellissima, suggerisce benessere e agio, mentre giusta e funzionale mi fa sentire la protagonista di un racconto di Asimov e non è consona al mio sentire di partoriente, per quel che mi ricordo almeno. Inoltre comoda è una parola rotonda, con quelle due o che si distendono nella a finale. Funzionale invece è una parola spigolosa e la lingua si annoda in quel unz.
- psicolprofilassi (riferita al parto) è una parola che ormai non si usa più nemmeno in ambito sanitario. Si preferisce usare "accompagnamento alla nascita", grazie al cielo.
- perchè dare per scontato che tutte le donne seguano corsi in ambito sanitario durante la gravidanza? E poi, una donna che non ha fatto un corso non è adatta ad avere una doula?
- Bonding è una parola da addetti ai lavori. Più parliamo come mangiamo, e meglio è, direi. Quando arrivo in casa di mia figlia con il suo neonato in braccio, le dico che hanno una relazione meravigliosa, mica le dico "che bonding forte hai creato".
domenica 2 febbraio 2014
Femmine un giorno e poi madri per sempre.
Quando
ero ancora nell’età in cui potevo generare figli dalla mia carne, pensavo che
l’unica cosa certa è che si nasce e si resta figlie, e che invece si diventa
madri ogni giorno, che non è sufficiente aver messo al mondo un bambino, che non
è una cosa imparata una volta per tutte
come l’andare in bicicletta. Che la maternità va scoperta, inventata,
riaggiustata, combattuta, accettata, masticata e digerita, giorno dopo giorno.
Ricordo
di avere trascorso tanto tempo stupefatta che quella cosa, essere diventata
madre, fosse capitata proprio a me. Le prime settimane dopo il primo parto,
quando mi svegliavo alla mattina ero quasi sbalordita che quella neonata fosse
ancora lì, non potevo distrarmi o metterla tra parentesi, lei era sempre lì. Tutto
era diventato laborioso e complicato, anche il minimo garantito per la mia
sopravvivenza come mangiare, dormire, andare in bagno, vestirmi. Le sue
esigenze imperavano, debordavano, sommergevano tutto. Aveva fame, piangeva, la
allattavo, si addormentava, si svegliava, piangeva, aveva fame, la allattavo. Saranno
stati anche i fumi della prolattina e della mancanza di sonno a farmi galleggiare
come in un sogno, ma mi stupivo dell’enormità di quello che era successo, mi
batteva il cuore accorgendomi di quell’ineluttabilità.
Era
esaltante l’irruzione di quella vita.
Era
emozionante.
Era
paurosa.
Giorno
dopo giorno venivo traghettata, con tutte le mie cose, verso qualcosa che mi appariva
favoloso e carico di doni. Prendermi cura di quel cucciolo era la cosa più
bella che mi fosse mai capitata, ne ero perdutamente innamorata, ma piangevo
per un nonnulla e intravedevo fin da subito che tante insidie stavano lì
acquattate, pronte a saltarmi addosso. Qualcosa di me si era aperto, come il
mio corpo si era aperto nel dare alla luce la creatura che per lunghi mesi era
stata rannicchiata nella mia pancia. Mi ero aperta, non potevo più richiudermi
e conoscevo una nuova vulnerabilità. Che cosa mi avrebbe portato quell’esserino?
Quanta genuina felicità? Quanta speranza? Quanta paura? Quanto lacerante
dolore? Potevo ancora essere integra, lucida e intatta come una palla da
biliardo che rotola sbruffonamente nella vita?
Nelle
nascite successive non avrebbe dovuto esserci questo stupore, in fondo lo
sapevo già. Invece c’era, altrettanto forte. Niente sarebbe stato più come
prima, non sarei stata nemmeno più la stessa madre che ero stata fino a quel
momento.
Tra
la donna che diventa madre e il figlio è un continuo processo di
patteggiamento, di adattamento reciproco, fin dal momento in cui l’ovulo
fecondato scende dalle tube e la nuova vita si insedia nella parete uterina, e
può avere un andamento armonioso oppure litigioso. Il corpo si predispone
all’attesa, si è una e allo stesso
tempo si è due. Ricordo le mie
gravidanze come stati di grazia in cui godevo di un intenso rapporto con me
stessa, lunghi pomeriggi trascorsi nel letto ad ascoltare i movimenti nella mia
pancia, ore passate a scrivere su un quaderno i sogni della notte e i ricordi
d’infanzia. Anche quando il mondo che mi circondava non mi concedeva quei
privilegi che ritenevo mi fossero dovuti, me li prendevo a morsi con una
determinazione che non sapevo di avere.
Poi
arriva il giorno in cui ci si separa, si diventa davvero due e mica è facile.
Occorre
imparare l’arte di far convivere tante parti di sé, senza che una parte uccida
l’altra o la faccia crescere esangue come una pianta vissuta nell’ombra o,
peggio ancora, germogliata sotto un sasso.
Imparare
l’arte di amare che, come il respiro, è un dare e un prendere.
Proteggere,
prendersi cura, ma rispettare l’alterità del figlio.
Apprendere
la propria fallibilità. Sapere portare dignitosamente il peso delle colpe che
inevitabilmente si accumulano.
Sapere
andare avanti, anche quando si vacilla.
Per
quella che è la mia storia, il tempo in cui stavo diventando quella che sono
diventata è stato un tempo tumultuoso, in cui la mia crescita si è intrecciata
con la crescita dei miei figli, un processo di maturazione magmatico, simile
alla trasformazione del compost organico. Sono diventata madre molto giovane, è
giusto? E’ sbagliato? I figli bisognerebbe forse averli quando il tempo della
propria formazione si è compiuto? E se anche un tale tempo esiste, non si
avrebbe un’età ormai più adatta a fare la nonna piuttosto che la mamma? E il
diventar madre non sconvolgerebbe forse anche l’assetto più equilibrato e
consolidato?
Comunque
sia, per tanto tempo ho pensato che l’unica cosa certa è che si rimane sempre
figlie, mentre l’essere madre è da imparare ogni giorno. Ho capito invece che
le età della vita spostano le prospettive, i punti di vista. Sto scoprendo
insomma, mano a mano che avanzo recalcitrante verso quel tempo che sarà
l’ultimo, che anche l’essere figlia non è dato per sempre, se non come nocciolo
interiore. E che l’essere madre, così come l’ho vissuto nella baldanza
generativa, è destinato a diventare un fatto acquisito e a sfociare in qualcosa
di molto diverso.
Un
tempo, tanto per dire, mi identificavo nei protagonisti delle storie di cui
venivo a conoscenza. Oggi mi succede sempre più spesso, specie se è una storia
dolorosa, di identificarmi con la madre del protagonista, solitamente assente
dalle scene. La minorenne finita nella tratta della prostituzione, il ragazzo
depresso e abulico, la ragazza suicida, l’adolescente immigrato e incarcerato.
E che dire di Kurt Cobain, ce l’avrà avuta anche lui una madre. Mi viene da
pensare alla madre di Luigi Tenco, alla madre di Amy Winhouse, e persino alla
madre di un mio mito di gioventù, Janis Joplin. Chi ci aveva mai pensato prima,
a tutte queste madri?
Ho
dovuto però vedere i miei figli prendere la loro strada di adulti, per ribaltare
il punto di vista, e identificarmi con la mamma di Amy Winehouse. Essere madri
di adulti è molto diverso che essere madri di bambini, eppure non si è certo
meno madri. “Femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che
stagioni non sente” (1).
Sono
abbastanza evoluta da sapere che è giusto che i figli vivano la loro vita, che
passino i loro dolori, che imbocchino i loro sentieri irti di spine, che la
libertà è un bene supremo. Ma come posso impedirmi di desiderare che questi
figli siano sempre felici, che non conoscano la sofferenza, che non vivano
l’oltraggio della malattia, né la minaccia della morte?
Come
sarebbe, voglio forse che i miei figli non vivano? Che siano dei citrulli
imbalsamati nella formalina? Certo che no, che pensiero blasfemo.
E
però.
Però.
A
volere dire la verità fino in fondo, questo desiderio che i figli siano in
salute e felici non è dettato solo da un amore assoluto, incomparabile ad ogni
altro amore sperimentato, ma anche da un prepotente istinto di
autoconservazione. Il tanto decantato diritto a non farmi divorare dall’essere
madre continuando a coltivare la mia vita di donna, è direttamente
proporzionale al benessere dei miei figli. Di fronte alla loro sofferenza perdo
quegli appigli con la terra che mi fanno stare in equilibrio, quasi tutto mi
appare improvvisamente superfluo e vano. Se una minaccia incombe su di loro,
desidero solo connettermi con quella che Etty Hillesum chiamava la profonda
sorgente, spesso coperta da pietre e sabbia, per trovare la forza necessaria (2).
Resto nella normale quotidianità come fossi l’ologramma di me stessa, pura
apparenza, cerco di nutrire l’invisibile per non sentire i morsi al cuore e
avere quella che un tempo si chiamava forza
d’animo.
Se
si può decidere se e quando diventare madre, non si può decidere se e quando
diventare nonna, ti capita e basta. La prima volta che è successo ho fatto sogni
incredibili, che svelavano una trasformazione in atto di cui da sveglia non mi
rendevo altrettanto conto.
Avevo
sempre avuto un sogno ricorrente.
Entravo in una casa abbandonata, ma ancora piena dei suoi mobili, le sue carte,
i suoi oggetti. Le pareti erano
ingiallite dal tempo, le stanze di aprivano una dopo l’altra, quasi si fosse
trattato di un lungo corridoio, separate tra loro da una porta. Io le
attraversavo piena di emozione, commozione direi, perché sentivo tutti i
misteri che quella casa antica e piena di polvere celava, ma mi restavano tutti
nascosti. Io sapevo che in fondo, nell’ultima stanza, qualcuno si era
ricoverato lì abusivamente, ma non sapevo chi era, né l’ho mai incontrato.
Ebbene,
nei mesi che mi separavano dalla nascita del mio primo nipote, una notte ho
sognato che entravo nella casa. La prima stanza era stata tutta tinteggiata di
nuovo, anche i mobili erano stati rinnovati e non c’erano più tutti quegli
oggetti sparpagliati che c’erano sempre stati. La porta che si affacciava sulla
seconda stanza era chiusa, allora abbassavo la maniglia ma scoprivo che era
stata chiusa a chiave. Chiusa per sempre, perché non ho mai più sognato quella
casa.
Sto
scoprendo che è possibile, e anzi necessario, diventare madre persino della mia
stessa madre, che devo proteggerla, consolarla e stimolarla con attività
didattiche affinchè possa continuare ad aggrapparsi a pezzi di memoria. Con lei
mi capita di attivare la fantasia per inventare piccole strategie risolutive,
proprio come si fa con i bambini. Come quella volta che mio nipote, all’età di
tre anni, buttò il suo Trigro di peluche nel camino, senza rendersi conto che
il fuoco brucia e divora. Lo tirammo prontamente via con le pinze, ma il
peluche era irrimediabilmente strinato, in alcuni punti si era rotto e usciva
l’imbottitura. Lui piangeva inconsolabile. Allora improvvisai un Pronto
Soccorso. Ricoverai Trigro, lo disinfettai con acqua ossigenata, gli misi la
pomata, gli feci un’iniezione, chiusi le ferite con cerotti e garza e
raccomandai a mio nipote di prendersi cura di lui.
Il
peluche continuò a fare il suo dovere di peluche ancora per anni, così
medicato.
Sto
scoprendo anche che la maternità appartiene a tutte le donne, pure a quelle che
di figli non ne hanno generati mai. Anche loro si confrontano con la maternità,
semplicemente perché sono donne. Sia che la temano, che la cerchino invano, che
ne patiscano la mancanza, che si interroghino o che se ne sottraggano
bellamente e godano di questo privilegio. E poi siamo tutte figlie di donne che
ci sono state madri, e non abbiamo mai potuto fare a meno di pensarci “come
se”. Tentando di non assomigliarle mai, o tentando di ricalcarne perfettamente
la sagoma. Oppure cercando di non assomigliarle troppo, per scoprire poi di
avere assorbito il suo modo di essere così tanto da seguirne l’esempio senza
averne consapevolezza.
Mano
a mano che quell’essere “per sempre figlia” si rannicchia più profondamente
dentro di me, sto scoprendo che il mio essere madre si stempera in qualcosa di vasto,
come se la vita fino ad ora fosse stato un fiume che sta sfociando nel mare. Sto
scoprendo che essere madre è in fondo un modo di essere, un modo di pensare al
mondo.
Tanto
tempo fa ricevetti una telefonata da un amico. “Vorrei che tu parlassi con una
ragazza che è incinta, ma ha dei problemi. E’ una cara amica, e credo le
farebbe bene parlare con te”. Dissi di sì, pur se immediatamente colta da una
smisurata ansia da prestazione. L’aspettai alla stazione e poi andammo a
sederci in un bar poco lontano. Era pallida e seria, ancora non aveva nessun
segno visibile di gravidanza. Mi raccontò che questo figlio che aspettava lo
aveva voluto, ma che adesso si sentiva in uno stato d’animo che non era quello
immaginato per tanto tempo. Tutti si aspettavano che lei fosse felice, e invece
non lo era. Non che fosse infelice, ma quando le chiedevano con un sorriso che
non ammetteva repliche “Sei contenta?” si sentiva in dovere di rispondere sì.
La verità è che era malinconica, a volte triste, stranita da sensazioni fisiche
che non conosceva, colta talvolta dalla paura. Soprattutto la faceva star male
che tutti si aspettassero da lei esternazioni di felicità. Era delusa, e questo
le sembrava un sentimento scandaloso, sbagliato.
Non
feci nulla di particolare. La ascoltai, le dissi che conoscevo molto bene
quello stato, che fa parte del gioco. Le raccontai qualche storia. Ci capimmo. Si
rasserenò. Concludemmo che forse bisognerebbe non svelare la propria gravidanza
per qualche mese, fino a che non ci si è assestate, per non sentirsi invase
dalle aspettative altrui.
Poi
lei riprese il treno.
Dato
da quell’incontro la mia prima esperienza di doula, anche se di questa parola non
conoscevo ancora l’esistenza. Avevo già fatto da “accompagnatrice” a donne che
diventavano madri, ero stata al loro fianco anche durante il parto, ma si
trattava di amiche più o meno intime. Quella è stata la prima volta che mi sono
trovata a farlo con una perfetta sconosciuta.
Essere
doula è stato un approdo che non posso dire di avere davvero scelto. E’ andata
così, la scelta è stata solo quella di accorgermi di questo anziché di altro.
Mi
piace questo stare in ascolto. Andando a tentoni attivo tutte le antenne di cui
dispongo, facendole sottili e morbide come quelle delle lumache. Abbasso i miei
pensieri e come ad occhi chiusi cerco le chiavi della donna che ho accanto. No,
non le chiavi che servono ad aprire le porte, ma piuttosto quelle musicali,
disegnate sul pentagramma.
In
quale chiave suona la sua musica interiore? Quali sono i principi armonici e
melodici che regolano questa musica? Qual è insomma la sua tonalità?
E’
spaventata e vuole solo essere rassicurata, sapere che non sta sbagliando?
Vuole
essere una madre perfetta, da Palmarès?
Vuole
trovare soluzioni pratiche senza tante smancerie?
Vive
questo passaggio come qualcosa di sacro, pieno di coincidenze che la connettono
all’armonia dell’universo?
Oppure
è decisamente profana, ironica e dissacratoria?
Ha
fantasie distruttive?
E’
passionale e fisica col suo neonato?
O
piuttosto teme di perdere il tempo per sé stessa e la bellezza delle sue forme?
Galleggia
in uno spazio senza tempo?
Oppure
è inquieta, smaniosa di riavere una vita normale?
E’
affamata del suo cucciolo lattante, ha una relazione esclusiva con lui?
Oppure
questo nuovo essere venuto al mondo è un dono che ha fatto alla piccola
comunità in cui vive, alla famiglia?
Se
individuo la sua chiave musicale, posso mettermi in accordo con lei, e offrirle
qualcosa che può esserle utile. Un po’
di accudimento, rassicurazioni, qualche utile informazione, delle sane risate.
Semplicemente, uno sguardo da cui lei si senta vista.
Ci sono donne che passano il tempo della
gravidanza a immaginarsi che madre vogliono essere. Ce ne sono altre che si affidano al “se ci
sono riuscite tutte, ci riuscirò anch’io”.
Magari cercano di informarsi, pianificano un
nuovo assetto della casa, magari frequentano corsi con altre mamme in attesa come
loro, magari sperano di trovare un posto al Nido. Sistemano nei cassetti tutine di ciniglia con gli
orsetti e pomate alla calendula, coltivando dolci fantasie.
E poi arriva il tifone, che non di rado
coglie di sorpresa anche le più informate.
Perché mi hanno fatto credere che il parto
fosse una cosa naturale. Perché mi hanno trattata come un animale. Perché sono
sconfitta dal cesareo. Perché mi sembra di avere un vampiro feroce attaccato
alle tette. Perché ho le ragadi e piango dal dolore. Perché non capisco perché
piange. Perché non sono più padrona del
mio corpo. Perché sono brutta e grassa. Perché piango sempre. Perché tutti mi
dicono cosa devo fare. Perché mi sento inadeguata. Perché non mi sento più una
donna. Perché sono stanca. Perché mi vergogno di non essere felice.
Perché nessuno me l'aveva detto?
La nascita non è solo l’arrivo di un bel
bebè. Troppe cose si danno per scontate, poca cura e attenzione viene riservata
ai delicati processi che si mettono in moto con quel miracoloso evento. Eppure
tutto incomincia con la nascita, ogni nascita partecipa alla nascita della
società, della collettività, del pensiero collettivo (3). Tutti noi siamo nati
un giorno, possibile che il lato umano dell’evento ci interessi così poco?
Si dice spesso che la doula sopperisce a quei
bisogni che un tempo venivano soddisfatti dalle nonne, dalle zie, dalle vicine
di casa; che la società è diventata più frammentata, individualista e che le
madri sono più sole del tempo in cui la maternità era un evento condiviso dalla
collettività. In parte è sicuramente vero, ma detta così sembrerebbe che un
tempo le donne vivessero il loro diventare madri con serenità, che avessero il
tempo di covare quella maturazione interiore sempre necessaria, accudite dalle
donne di famiglia. Tra le madri di un tempo non c’erano forse quelle
profondamente ferite da una gravidanza precoce che le aveva strappate dal nido
materno? Oppure da un parto da macelleria? Non c’erano le depresse? Non c’erano
anche le madri più bambine dei loro stessi figli, le frustrate, le infelici?
Le madri di un tempo erano più asservite al
destino che qualcuno aveva già scritto per loro in quanto donne, questo sì, me
non sempre gioivano dell’abbraccio collettivo intorno a loro, a volte
semplicemente lo subivano. Le puerpere di un tempo allattavano senza tante
smancerie, ma ad ascoltare i loro racconti oggi si scopre che potevano avere ragadi
dolorosissime e sanguinanti, proprio come può succedere alle puerpere di oggi,
solo che le sopportavano in silenzio. Magari avevano così tanta nostalgia della
mamma e delle sorelle da piangerci la notte. Le donne che assistevano ai parti a
volte erano una benedizione dal cielo, ma altre volte erano autentiche carogne
e come tali vengono ricordate. Le madri che davano troppi segni di inquietudine
e avevano molti grilli per la testa, passavano dalla casa al manicomio senza
tappe intermedie, chiuse lì con zelo da quella stessa collettività che avrebbe
dovuto proteggerle.
Penso che le donne di un tempo avessero meno strumenti di
quelle di oggi e che diventassero madri con meno consapevolezza. Oggi, in
questa nostra vituperata società, le donne non si accontentano e non si
rassegnano facilmente, rimpiangono certe forme di solidarietà collettiva del
passato ma la vogliono a modo loro. Se le anziane del passato avevano la
funzione di dare alla giovane sposa le regole di comportamento codificate, le
donne che diventano madri del giorno d’oggi sono frastornate dalla
sovrabbondanza di consigli discordanti tra loro, di “è giusto fare così”, e
comunque quello che desiderano è fare a modo loro. Solo che faticano a capire
qual è il loro modo. Credo che la doula si collochi tra questi nuovi bisogni,
per donne diverse dal passato, per padri diversi, per famiglie
diverse, per aspettative diverse.
Recentemente sono stata invitata a portare la
mia esperienza di madre e di doula in un gruppo di giovani studentesse
universitarie che si riuniscono regolarmente per parlare di sessualità. Come le
vecchie partigiane ho dato la mia testimonianza e ho risposto alle loro
domande, soprattutto le ho ascoltate raccontare quello che sanno della loro
nascita, della nascita dei fratelli, dei loro pensieri e paure riguardo alla
maternità. Paura del figlio con gravi disabilità, paura di quello che gli altri
si aspettano da una donna che diventa madre, paura di non essere capaci, paura
del corpo che si deforma, paura del dolore del parto, paura dell’alieno che
cresce dentro al proprio ventre, paura perché non si potrà più tornare
indietro, paura di un legame che dura tutta la vita.
Sono paure universali, ed è importante creare
spazi protetti per poterle esternare senza peli sulla lingua, sapendo di essere
accolte.
Oggi il progresso scientifico e tecnologico
consentono di evitare o programmare la maternità, consentono di fecondare un
figlio fuori dal proprio corpo, persino di farlo crescere nella pancia di un’altra.
Ma sono novità ancora così recenti che ancora non le abbiamo assorbite e se da
una parte ci fanno sentire vittoriosi sul determinismo biologico, dall’altro
creano nuovi smarrimenti e fragilità, senso di responsabilità e paura di
sbagliare che si ingigantiscono a dismisura.
E che dire del bisogno di ascolto e delle
donne che vivono un lutto prenatale, di quelle che hanno un figlio prematuro in
incubatrice, o che diventano madri in carcere?
No, non sono solo rose e fiori, e ogni
singolarità merita ascolto, accoglienza, attenzione.
Quando nasce un bambino nasce anche una
madre, nasce un padre e nascono pure dei nonni. Noi nonne, in particolare, ci sentiamo
generalmente molto coinvolte in questo nuovo ruolo.
Mi sono sempre piaciuti i Pokemon, animali di
fantasia con cui mio figlio ha giocato per anni. Quando un Pokemon si evolve,
diventa un Pokemon di stato superiore. Ebbene, la nonnità è una evoluzione
della maternità, un po’ come Raichu è l’evoluzione di Pikachu.
Però, origliando i discorsi delle mamme al parco, noi
nonne Raichu abbiamo poco da essere allegre. Un giorno mi sono presa l’incomodo
di raccogliere un po’ di commenti sull’argomento nei vari blog e forum sul web.
Ho fatto un collage, come fosse un unico discorso, ma è frutto della voce di
tante giovani donne.
Sapete consigliarmi un centro
rottamazione per genitori e suoceri inutili o addirittura dannosi? Io vorrei
metter su in centro di rieducazione per nonni, anche se non sono certa siano
recuperabili. Ho fatto un enorme errore di valutazione: sono venuta per
un periodo a casa dei miei nella speranza di essere aiutata con i bambini, e
ora vorrei scappare, ma come mi è venuto in mente? Non sa fare altro che darmi
sempre tutte le colpe, se è nervoso è colpa mia, se non mangia è colpa mia, se
ha il raffreddore è colpa mia. Mia madre mi ha davvero pugnalato al cuore,
quando ha detto che sono una meravigliosa madre per neonati, ma non sono in
grado di stare dietro a un bambino più grande. Nessun aiuto, solo giudizi sul
fatto che mio figlio piangeva sempre perché io ero nervosa. Ogni volta che si
portano i bimbi dai nonni c'è sempre da mettere in conto qualche battibecco.
Mia madre non mi risparmia niente, eppure è stata mamma anche lei, e anzi lo è
ancora. Sa sempre tutto lei, e anche mia suocera sa sempre tutto lei, e però
sanno cose differenti. Mia suocera vorrebbe essere la madre di mio figlio, è
convinta addirittura che mio figlio creda che la sua mamma è lei, perché io di
giorno lavoro e lei se ne prende cura. Fin da quando aveva poche settimane,
aveva la pretesa di farlo dormire da lei un giorno alla settimana, e mi diceva
melliflua che così potevo distrarmi un po'.
Mica è facile nemmeno essere nonna.
Noi a sessant’anni supponiamo, a differenza delle nostre
predecessore, di avere ancora tanta vita davanti, e stiamo un po’ strette
nell’iconografia della nonna che al tramonto della vita fa solo torte e lavora
a maglia. E proprio come quando eravamo semplicemente madri, prima di esserci
evolute in nonne, fatichiamo nella metamorfosi e non siamo tutte buone e
felici. Alcune di noi sono depresse, altre cercano di sostituirsi alla figlia
nel ruolo di madre, altre si sentono finalmente libere e non sono di nessuna
utilità, oppure si identificano nel ruolo di nonne così bene da dimenticare che
siamo pur sempre madri. Tante giovani madri me lo dicono: “lei adesso non fa
che dire che è diventata nonna e che questo è suo nipote, ma mi fa arrabbiare, perché lei è la mia mamma, e io sono diventata mamma del
mio bambino. Detesto quello sguardo
mieloso con cui guarda mio figlio appena entra in casa, dovrebbe guardare me in
quel modo”. In fondo il ruolo di nonna dovrebbe essere la semplice
continuazione del ruolo di madre, che sa contenere e accogliere, lasciando
rispettosamente lo spazio alla figlia o al figlio per la sua costruzione filiativa
(4).
E poi c’è il rapporto diretto con in nipoti, questi
preziosi esseri che ci tengono in contatto con l’esuberanza della vita che va
avanti, con il mondo che cambia, con la prepotenza del desiderio di apprendere
quando ci potrebbe sembrare di sapere ormai tutto.
Il mio nipote più piccolo ha appena sei anni, adora
giocare con i videogiochi on-line, però è piccolo e chiede continuamente supporto.
Io non glielo do mai, perché detesto i videogiochi e soprattutto non ci so
giocare, che immagino sia la vera ragione per cui li detesto. Ogni volta è una
lite, e lo ammorbo con il rosario del "ma perché non fai altri giochi, tra
poco spegni che non mi piace che stai inchiodato davanti a uno schermo, è
inutile che lo chiedi a me, quando ero piccola questi giochi non esistevano
nemmeno, io non ci capisco niente, non potresti giocare con i Lego".
Poi un giorno mi chiede solo di guardare perché non funziona un certo tasto.
Vado a vedere, e cerco di decifrare il meccanismo del gioco, che prevede di
fare incontrare due panda attraverso complicate geometrie. Prima mi
incuriosisco, provo a capire come funziona, poi mi appassiono. Spingo mio
nipote via dalla sedia e mi metto a giocare. Lui si siede accanto, e insieme
discutiamo le strategie. Dopo due ore arrivo al trentanovesimo livello del
gioco, e lui ogni volta esulta rosso per l’emozione, strillando forte.
Finché sbotta : "anch'io voglio diventare una nonna come te!".
Questo grido a pieni polmoni spazza via gli ultimi rimasugli
del sentirmi figlia, e mi incorona trionfalmente e definitivamente nonna Raichu.
(1) F. De Andrè, Ave Maria dall’album La buona novella (1970)
(2) E.Hillesum (1981), Diario1941-1943 Adelphi Edizioni, Milano, 1985, p. 60
(3) S. Marinopoulos (2005), Nell’intimo delle madri Feltrinelli, Milano, 2006, p. 174
(4) Ibidem, pag.
151
articolo pubblicato su Rivista di psicologia analitica,
Nuova serie n.35, Volume 87/2013 a cura di Pina Galeazzi e Daniela Palliccia
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